La copertina è dedicata a noi. Fa specie con i tempi che corrono, ma abbiamo deciso che i compleanni vanno festeggiati comunque.
Se siamo arrivati al numero trecento lo dobbiamo a tanti amici che ci hanno incoraggiato e aiutato. Nelle pagine seguenti ricordiamo quelli che non ci sono più. Abbiamo anche messo in rete, consultabili, i primi cinquanta numeri. Risfogliandoli vediamo tantissimi difetti, ma qualcosa doveva pur esserci se, quasi da subito, Grazia Cherchi cominciò a seguirci, a consigliarci. E se poi, di lì a poco, Alex Langer regalò ottocento abbonamenti. Cos’era? Forse la scelta dell’intervista. Ma per noi in realtà fu una scelta obbligata, perché non avremmo saputo fare altro. Nessuno di noi è in grado tuttora di scrivere un saggio e neppure un reportage. No, non eravamo e non siamo degli intellettuali. In ogni occasione abbiamo sempre premesso che siamo solo dei militanti, anche se non si sa più di che. Siamo del ’50, non abbiamo studiato, ci mancano proprio i fondamentali. In quattro dei nove fondatori, amici di scuola, venivamo infatti da sette-otto anni di attivismo sfrenato, di militanza a tempo pieno e di “pensiero unico”. E quando tutto questo crolla ti ritrovi ad aggirarti nel mondo intorno come un Kaspar Hauser. Non capisci più niente e corri anche il rischio di incattivirti. Ma poi il ritiro a vita privata, anche se in certi casi squallido, è servito ed è tornata la voglia di far qualcosa. Una rivista, forse. Ma come, se non hai niente da dire e da scrivere? “Allora facciamo parlare gli altri”. Due di noi, di ritorno da un viaggio a New York, avevano portato alcuni numeri di “Interview”, di Andy Warhol, una rivista di sole interviste, ma a gente famosa dello spettacolo. Ecco, potevamo far così anche noi, intervistando, però, gente comune, operatori sociali e, certo, anche intellettuali. Incapaci anche di imbastire una scaletta se l’intervista era tematica, adottammo una tecnica più da storia orale che giornalistica. Con la conseguenza collaterale di avere un registrato che, trascritto, era tre o quattro volte la misura massima per la pubblicazione. Lisa Foa ci disse un giorno: “Ma come fate a far vuotare il sacco?”. Aveva funzionato! Anche se grazie a un difetto. Molti anni dopo, a un seminario dell’Università di Verona dedicato a “una città”, un professore amico ci avrebbe rimesso “al nostro posto”: “Guardate che non avete inventato nulla, la vostra è l’intervista ‘non direzionale’, una tecnica su cui sono stati scritti dei saggi”. Infine, forse va detto, degli anni della “militanza rivoluzionaria” qualcosa c’era rimasto: l’attrazione e il rispetto per la gente, quella cosiddetta “comune”. E questo certamente ci è servito. Sì, l’intervista ci ha cambiato la vita. L’amico Andrea Ranieri ci definì “militanti della domanda”.
Altri due, dei fondatori, erano invece anarchici e se forse avevano frequentato meno gente di noi, di certo avevano vissuto i Settanta “nel due”, non “nell’uno”. Li avevano passati polemizzando con l’onnipresente e onnipotente marxismo e a discutere e a corrispondere fra di loro, anche attraverso i continenti, su tutti i problemi e le scelte che dividevano i libertari, visto che loro non avevano la storia spianata davanti. Erano intelligenti e abbiamo passato serate ad ascoltarli raccontare e spiegare di Proudhon e degli altri. Furono loro a suggerire di andare a intervistare un certo Gino Bianco su un certo Andrea Caffi e su un certo Nicola Chiaromonte. Lì toccammo con mano la nostra stupefacente ignoranza, a fronte dei tanti anni dedicati alla politica. Non sapevamo nulla del “Mondo” e di Pannunzio, di “Tempo presente”, nulla di Salvemini e dei Rosselli. Fu così che ritrovammo una tradizione, quella antitotalitaria, che ridava un senso al nostro impegno e forse alla nostra vita. Seppur molto varia e plurale, la chiamammo “altra tradizione” e Pino Ferraris ci riconobbe il merito della definizione. Fu lui, poi, a darci un’intervista memorabile su Osval-do Gnocchi-Viani, un altro che a noi non diceva nulla, pur essendo il fondatore del primo partito operaio, insieme ad altri dell’Umanitaria e dell’Università popolare e, soprattutto, delle camere del lavoro, unico caso al mondo di orizzontalità del sindacato.
C’è infine un terzo elemento all’origine della rivista: la memoria della Shoà. E questo grazie sopratutto all’incontro e poi all’amicizia con una giovane ebrea parigina emigrata a Forlì. Quella a lei fu la prima intervista in assoluto. Fatta con un registratore malfunzionante, a risentirla si capiva molto male, ma era stata molto sofferta e non potevamo ripeterla. In particolare non si capiva quando Sulamit, sconvolta per Sabra e Chatila, raccontava della discussione coi suoi genitori (che si erano conosciuti in fuga dalla Polonia); anch’essi sgomenti per l’accaduto, avevano concluso con una frase del tutto incomprensibile nella registrazione. Sembrava, assurdamente, che avessero pronunciato la parola “Honolulu”. Finalmente capimmo che avevano detto: “Ma comunque ricordati che alla fine sarà sempre: o noi o loro”. Ecco, di lì iniziò il cambiamento del nostro sentimento verso Israele. Non più un paese colonialista, avamposto degli odiati americani, che si comportava da nazista, ma il paese dei sopravvissuti (fra l’altro per un lungo periodo la più bella esperienza socialista della storia) che doveva e poteva difendersi e che avrebbe dovuto essere convinto “da loro”, cioè da noi, dal mondo, di poter smettere di pensare: “O noi o loro”. Così iniziò l’impegno della rivista per la memoria della Shoà e, anche, per raccontare ogni esperienza di incontro e dialogo fra israeliani e palestinesi. E da lì, poi, venne la scelta di sostenere i bosniaci senza alcuna esitazione.
Ecco, questa è la storia degli inizi. Anni dopo con Sulamit, Lissi Lewin e altri amici costituimmo la Fondazione intitolata ad Alfred Lewin, giovane socialista del bund berlinese, fucilato nel ’44 a Forlì insieme alla madre Jenny. Oggi la Fondazione Lewin è proprietaria della rivista “una città”.
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