Solo un breve appunto ma spero non irrilevante. È sullo stupro bellico. Vorrei dire “a fini bellici”, ma non sono sicuro che sia un’espressione giusta, dato che lo stupro non viene solo usato come arma contro il nemico, dunque come mezzo per umiliarlo, mortificarlo, sfregiarlo, annientarne la basilare umanità identificata nel corpo femminile, ma talvolta pare sia esso stesso il fine dell’azione, il culmine simbolico e non simbolico della violenza, persino più dell’assassinio. Eppure per l’ennesima volta viene svalutato, derubricato, o addirittura si nega che sia avvenuto, proprio come spesso accade per i casi individuali.
Senza risalire indietro nel tempo a eventi a noi comunque molto vicini, come la guerra in Bosnia degli anni Novanta, mi limito a riferirmi al più recente episodio, che purtroppo di sicuro non sarà l’ultimo, e cioè l’attacco di Hamas sul territorio israeliano del 7 ottobre scorso. Non intendo minimamente entrare nel merito politico e militare di quell’avvenimento e di ciò che ne è seguito, cioè i bombardamenti e l’operazione di terra dell’esercito israeliano a Gaza.
Entrarci, confondendo i due piani, vorrebbe dire ancora una volta far prevalere un ordine di discorso politico su un altro, proprio quello che puntualmente è avvenuto negli ultimi mesi. Mi soffermo dunque solo sulle violenze sessuali perpetrate ai danni di donne civili e militari israeliane. Malgrado il breve arco di tempo in cui si è svolta l’operazione di Hamas, ancora una volta l’aggressione sessuale si è confermata come l’azione privilegiata e quintessenziale volta a ferire e annientare il nemico (vorrei definire questa azione niente affatto casuale come metodo, o schema, o sistema punitivo, cioè in altre parole, il meccanismo della rappresaglia). Il corpo delle donne nell’ennesima situazione è stato scelto come teatro di guerra, destinato a portare i segni della battaglia e a rendere indisputabile la vittoria. Lo stupro bellico, infatti, potrebbe essere visto come un accidente, un semplice corollario o effetto secondario dell’azione militare vera e propria, ma non è così, è esso stesso parte integrante dell’azione militare, ne è per così dire la forma primaria, arcaica, appunto quintessenziale. A chi se lo fosse scordato, rammenta che quella dell’uomo sulla donna è la forma di violenza primigenia, una sorta di ur-violenza, archetipica e fondativa, che funge da modello e precede, se non storicamente certo su un piano simbolico, ogni altra forma di conflitto, sia etnico, religioso, tribale, di classe, di partito o di nazione. In altre parole, il modello della sopraffazione pura. Prima dell’oppressione dell’uomo sull’uomo, quella dell’uomo sulla donna.
Dunque, da questo punto di vista, purtroppo, niente di nuovo sotto il sole. Basta sfogliare, fra i tanti contributi sul tema, il famoso saggio di Joanna Bourke, Rape, per comprendere la natura appunto sistemica e sistematica della violenza sessuale nei teatri di guerra.
Il fatto nuovo è però che a mettere in dubbio questi stupri (proprio come accade quando è una singola donna a denunciare di aver subìto violenza e viene accusata di mentire), oppure a derubricarli come giustificati atti di resistenza, oppure a trascurarli del tutto, come se non fossero mai avvenuti o non ci fosse nemmeno il minimo sospetto che essi possano essere avvenuti, siano stati movimenti e commentatori e analisti che in altri frangenti proclamano di battersi per la difesa delle donne, dei diritti e della libertà delle donne. Trovo questo un fatto straordinario e però anche eloquente. Il discorso prettamente politico (in questo specifico caso, la causa palestinese) si è sovrapposto a quello (a mio avviso altrettanto politico) della difesa del corpo delle donne fino a nasconderlo e quasi a cancellarlo. Nel nome di una causa considerata di ordine superiore, ancora una volta, è stata messa da parte o ignorata o considerata di scarsa rilevanza la violenza sessuale, come fosse appunto un trascurabile effetto collaterale all’interno di uno scontro di ben altro livello. Ma io insisto: violentare una donna, e più che mai nel corso di un’azione bellica, è un atto profondamente, supremamente politico, un segnale il cui significato è impossibile eludere. Lo stesso eventuale sdegno moralistico di ridurlo a una antiquata barbarie è un modo per diminuirne la portata, come peraltro avviene per altri fatti violenti. Il 7 ottobre scorso è stata confermata una triste legge che vede nelle donne il nemico numero uno, il bersaglio da colpire, il simbolo da abbattere a ogni costo, anche in poco tempo, persino rinunciando a combattere in modo più efficace; perché rimane proprio lo stupro l’arma più efficace. Da questa prospettiva, puramente maschile, chi è dunque il nemico? Il nemico è colui le cui donne io mi dimostro capace di rapire, stuprare e fare a pezzi, le madri, le sorelle, le mogli, le figlie. La vittoria celebrata sul corpo delle donne.
(L’intervento è stato registrato nel corso dell’incontro “La violenza maschile parla di noi. Parliamone” organizzato da Maschile Plurale a Roma il 6 aprile 2024)