Quando si descrive qualcosa conta molto il punto di vista di chi parla, oltre all’oggetto di cui si parla: i protestanti, per esempio, chiamano i cattolici romani “cattolici” (o “papisti”, se sono arrabbiati) e non chiamano se stessi “protestanti”, bensì “anglicani”, “metodisti”, “battisti”, “luterani”, ecc. Ovvio, e l’ho dovuto imparare presto quando da bambina studiavo a cavallo di tre paesi (Gran Bretagna, Italia e Svizzera), quando dovevo far lo sforzo di ricordarmi a chi parlavo per passare gli esami: stesse date, Cesare ci aveva invaso, o aveva conquistato, o commesso un genocidio (gli elvezi)... Era un grande generale o un invasore senza pietà? Tutto vero, cambia solo lo sguardo.
In questo senso preferisco il concetto di “varietà” alla parola “differenza”, perchè quest’ultima implica un metro, un riferimento (diverso da che cosa?). Nel caso della dualità forse si può usare il concetto di “differenza” (ma è maschio diverso da femmina o femmina diversa da maschio?). Tuttavia  nel caso della pluralità non funziona del tutto. Dio o gli dei hanno sempre funzionato come sguardo esterno che definisce, ma in loro assenza l’operazione è assai difficile. Mi ricordo una conferenza di donne negli Usa cui assistetti circa cinquant’anni fa: Shere Hite incitava a non vedersi (noi donne) attraverso gli occhi di un uomo (inteso come maschio generico o come uno in particolare), ma di vederci con i nostri occhi.
Oppure penso alla barzelletta di un ebreo che all’inizio del Novecento voleva entrare negli Usa e gli consigliarono di non dire di che etnia fosse. Lui mise “Goy” (non ebreo) sul modulo, e ovviamente lo rifiutarono, perché era il punto di vista di un ebreo, anche se la parola vuol dire “non-ebreo”. La varietà inoltre lascia un po’ più spazio all’idea dell’uguaglianza dei diritti, cosa che la differenza e il relativismo permettono poco, visto che ognuno si definisce nel proprio gruppo in base ai propri parametri.
Questo gioco di sguardi si palesa sia nelle Lettres persanes di Montesquieu che nei Viaggi di Gulliver di Swift. Nel primo caso c’è la descrizione di Parigi vista con gli occhi di un immaginario viaggiatore persiano, che spiega che Parigi è grande come la ‘nostra’ Isfan, o che il re deve avere poteri magici perché dà un valore alle monete e tutti gli credono.
Nel caso di Gulliver, lui rimane della stessa taglia (a differenza di Alice nel paese delle meraviglie) ma diventa un gigante a Lilliput e un essere microscopico nel paese dei Brobdingnag. Lui è sempre lui, ma ha perso il senso della dimensione di sé nel mondo. È quello che spesso succede a chi perde i propri occhi e si vede solo attraverso quelli altrui. Succede a tante persone, più sovente a donne che a uomini. All’altro estremo c’è chi si definisce unicamente con i propri parametri e smette di vedere gli altri.
Si potrebbe definire un’autoreferenzialità visiva, in cui ci si vede come unici o uniche e a volte si perde di vista ciò che si vede. È una modalità di sopravvivenza portata all’estremo e fuori contesto, in cui ogni cosa è permessa sia individalmente sia come gruppo perché non si vedono più gli altri, non si prova più empatia.