Dedichiamo la copertina alle elezioni americane che, questa volta sicuramente, ci riguardano più delle nostre. La rinuncia di Biden, ormai inevitabile, non toglie nulla alla grandezza della sua presidenza, forse la più importante degli ultimi cinquant’anni. Come ci racconta qui a fianco l’amico Bronner, Biden è riuscito a dare l’altolà alla Russia e alla Cina, a risanare l’economia americana favorendo i lavoratori e, in un certo senso, a “riportarli a casa”, a riconquistare l’amicizia dell’Europa, a risollevare l’onore degli Stati Uniti dopo la guerra criminale di Bush, il tradimento della parola data di Obama e il golpismo di Trump. Ora c’è Kamala. Speriamo bene. Certo è che l’ondata mondiale di una destra sovranista e fondamentalmente autoritaria (la maggioranza “pigliatutto”, compresa la costituzione) fa impressione. Qualcuno ha scritto che se i fondatori, che avevano l’ossessione della dittatura della maggioranza, oggi mettessero piede al Congresso americano non riconoscerebbero il loro paese. D’altra parte di fronte alla cosiddetta “complessità dei problemi” (ma quando sono stati semplici?) l’idea dell’uomo “giusto” e solo al comando, che può decidere in fretta, ha contagiato un po’ tutti, compresi tanti democratici, anche di sinistra. Da decenni, infatti, predicano il maggioritarismo, l’unicameralismo e, di fatto, la riduzione dei partiti a puri comitati elettorali. Anche ora il rigetto totale, senza controproposte, dell’autonomia differenziata, è coerente con la tradizione centralista e paternalista di una parte della sinistra. I democratici e i socialdemocratici hanno sempre pensato che i problemi, anche complessi, compreso quello del rischio di tentazioni e tentativi autoritari, si affrontassero meglio con un potere diffuso, quindi col federalismo, col municipalismo e con la forza dell’associazionismo. Resta però da chiedersi perché tanta “gente comune” in tutto il mondo si sia spostata a destra. Il voto della ex-Germania dell’Est è impressionante. Ci può aiutare quel che Walzer ci dice delle distorsioni dell’affirmative action in America. Una sinistra che parla solo di diritti civili e di tutela delle minoranze ed è pronta a vedere del razzismo ovunque, è una sinistra che abbandona la sua prima ragion d’essere: i lavoratori. L’immigrazione incontrollata, e la parola d’ordine “accogliamoli tutti”, sono state la fortuna di ogni destra del mondo. Bisognerà pure capire il perché. Azzardiamo solo uno dei problemi: la cultura dell’Islam oggi dominante è compatibile con la democrazia e con i diritti delle donne?
Poi parliamo di Israele con due ebrei israeliani, Yigal Bronner e Rimmon Lavi, entrambi impegnati nella difesa dei palestinesi. Quel che Yigal ci racconta della Cisgiordania è angosciante. Se a Gaza ormai regna il crimine di guerra, lì regna quello contro l’umanità. Quel che abbiamo scritto fin dai primi tempi, che l’obiettivo del governo israeliano non era quello di eliminare Hamas ma quello di salvarla, facendo più morti possibili fra i civili palestinesi, il tutto per sventare l’idea dei due stati e per tenersi tutta la Cisgiordania, è ormai evidente. D’altra parte un dirigente di Hamas l’ha detto apertamente che era nel loro interesse che scorresse molto sangue palestinese. Se Israele avesse voluto veramente colpire Hamas, avrebbe dovuto certamente cercare di eliminare il più possibile i suoi combattenti, a cominciare dai capi, e distruggere tutti i tunnel, ma rinunciando alle azioni più devastanti per i civili e, contemporaneamente, facendo di tutto per assistere la popolazione palestinese, compresa la cura dei tanti feriti inevitabili. Purtroppo ora i governanti israeliani hanno sempre più il volto di un Milosevic e di un Mladic.
Inauguriamo un inserto della rivista intitolato “l’altra tradizione”, un’espressione che ormai ci è molto cara perché continuiamo a credere che la riflessione sul passato sia importante. Intanto perché una parte della sinistra, quella socialista, liberale e libertaria, è stata del tutto oscurata e dimenticata, in secondo luogo perché l’idea corrente è che tutto sia stato inevitabile e quindi giustificabile: inevitabile il voler “fare come in Russia” che aprì la strada al fascismo; inevitabile che là, sul popolo, si abbattesse un carico di violenza senza precedenti nella storia dell’umanità, e questo, si dice, per uscire in fretta dall’arretratezza; inevitabile che mezza Europa, devastata dal nazismo tedesco, fosse asservita a un nuovo padrone perché c’era la guerra fredda; pure inevitabile che un’ondata di violenza travolgesse gli anni Settanta perché c’era stata Piazza Fontana; eccetera eccetera. Di conseguenza nessuna autocritica, nessuna Bad Godesberg. Crediamo veramente che tutto questo non c’entri con l’oggi? Che non c’entri che il principale partito di sinistra si sia ridotto a essere un partito moderato simile alla Democrazia cristiana? Che, non avendo le carte in regola, rifugga da ogni riformismo radicale? Facciamo solo un esempio: potrebbe mai rivendicare che gli operai abbiano voce in capitolo sulla direzione dell’azienda, come succede in Germania? Lo suggeriva, in una nostra intervista, un coerente socialdemocratico come Salvatore Biasco, di cui, detto tra parentesi, sentiamo tantissimo la mancanza. Quel partito non potrebbe farlo, sia per il riflesso condizionato di una tradizione mai rinnegata, cui ripugnava ogni forma di cogestione, sia, all’opposto, per paura di essere sospettati, dalla parte ex-democristiana del partito e non solo, di voler fare i socialisti.
In questo primo inserto Carla Xodo ci parla delle scuole popolari e dei maestri ambulanti degli anni Dieci, quando, in gran parte d’Italia, il popolo era diviso in due: i benestanti e i contadini analfabeti. Fra quei volontari c’erano Sibilla Aleramo e il poeta Giovanni Cena. Su questa storia entusiasmante pubblichiamo le note di Gina Lombroso e di Gaetano Salvemini, tratte da “L’Unità”; dalla “Rivista popolare”, anno 1900, riprendiamo un appunto, sulle mafie del Nord, di Francesco Papafava, nonno del compianto Francesco che scriveva da noi; poi sempre dalla rivista fondata e diretta da Napoleone Colajanni, uno scambio di lettere fra questi e l’amico Maffeo Pantaleoni, importante economista liberale: il tema è la guerra anglo-boera del 1899-1902. Per chi parteggiare, fra giustizia e utilità? Uno scambio forse istruttivo. Di Matteo Lo Presti è il ricordo di Danilo Dolci e a lui dedichiamo anche “la visita” alla tomba, riportando una bellissima citazione tratta dalla difesa che Piero Calamandrei gli fece in tribunale. Infine pubblichiamo, dal quotidiano “La Giustizia”, 1924, due risposte di Giacomo Matteotti, da segretario del Psu, a Palmiro Togliatti. Illuminanti.
Poi abbiamo le interviste a Massimo Montanari sul cibo e la sua storia, a Piero Boitani sul Timeo di Platone, e gli interventi di Alfonso Berardinelli su “donne e natura”, di Alberto Cavaglion sulla metafisica del gender, di Paolo Bergamaschi di ritorno dall’Ucraina, di Vicky Franzinetti sulla varietà che è meglio della differenza, di Michele Battini su Maurizio Maggiani, di Belona Greenwood dall’Inghilterra.