Un progetto pilota
Tra l’autunno del 2023 e la primavera del 2024, abbiamo organizzato un piccolo laboratorio di interviste tra pari con una classe del liceo Classico Morgagni di Forlì. Il progetto è stato reso possibile grazie alla disponibilità delle professoresse Barbara Abbondanza e Patrizia Pedaci, come pure da quella delle studentesse e degli studenti che si sono prestati all’esperimento.
Sull’opportunità di intraprendere questo progetto mi ero confrontata preliminarmente con Alessandro Casellato, amico e collaboratore, anche per capire se esistesse della letteratura sulle cosiddette “peer interviews”. In realtà c’è pochissimo. (Tra l’altro, inserendo l’espressione in un motore di ricerca si scoprirà che quella delle “peer interview” è una formula oggi in voga tra gli addetti alle pubbliche relazioni delle grandi aziende dove viene utilizzata per il reclutamento di nuovi lavoratori. In sostanza il dipendente intervista il suo potenziale futuro collega).
All’origine dell’idea di condurre questo esperimento c’era, per me, da un lato, la lunga esperienza nella rivista “una città” come intervistatrice e quindi la consapevolezza del fatto che poter intervistare una persona in profondità e con l’agio di tutto il tempo necessario a disposizione sia un grande privilegio, specie per i più giovani; dall’altro lato, c’era la convinzione, anch’essa maturata negli anni all’interno del gruppo che fa la rivista, che la pratica dell’intervista abbia essa stessa i connotati di una buona pratica "civica" perché, laddove il setting è adeguato, si crea quel giusto mix di curiosità, rispetto, agio e fiducia reciproca, che sono le basi non solo di una buona conversazione, ma della convivenza. Infine, c’era la curiosità di confrontarsi con qualche rappresentante di questa vituperata generazione “iGen” di cui si parla perlopiù in termini sconsolati. Il libro di Jean Twenge, iGen, tradotto in italiano con il titolo “Iperconnessi” accusa la rete e i social di aver preso il sopravvento sui rapporti faccia a faccia; i giovani di oggi sarebbero più aperti delle precedenti generazioni, ma anche più ansiosi, meno inclini alla trasgressione e apparentemente meno interessati a raggiungere una condizione di indipendenza dai genitori, potenzialmente più depressi, immaturi, e complessivamente meno pronti ad affrontare la vita reale. Un quadro piuttosto impressionante, tanto da sollevare qualche dubbio. Di qui l’idea di ascoltare i diretti interessati intervistati da loro coetanei.
Parentesi: il metodo “una città”
Il progetto, sulla carta, aveva come obiettivo quello di formare un gruppo di ragazzi e ragazze attraverso un corso teorico-pratico di “intervista non direttiva”, una metodologia nata nell’ambito della raccolta della memoria orale e che è molto affine a quella praticata dalla rivista “una città”. Come abbiamo avuto modo di scoprire qualche anno fa (proprio nel corso di un incontro organizzato a Venezia dallo stesso Casellato) la metodologia che negli anni abbiamo affinato non è nulla di nuovo o originale. Si tratta di interviste cosiddette “non strutturate” o non direttive, la cui specificità è di essere più simili a una conversazione quotidiana, più informali, aperte, flessibili e libere. Questa è un po’ la metodologia che abbiamo adottato nel percorso sperimentale di “interviste tra pari”, in cui una ventina di adolescenti sono stati invitati ad intervistare altri adolescenti..
Come spiega C. N. Trueman in Unstructured Interviews, le domande non devono essere preimpostate (anche se vanno comunque identificati dei temi e delle questioni chiave che si intendono approfondire). Nelle interviste non strutturate le domande sono basate sulle risposte dell’intervistata/o; in questo senso resta un ambito di imprevedibilità che ne costituisce anche la ricchezza perché crea un contesto di parità tra chi fa l’intervista e l’intervistata/o; un’intervista non direttiva viene descritta anche come una conversazione amichevole e non minacciosa
Caratteristiche che fanno della metodologia dell’intervista “non direttiva” una possibile buona pratica dalla valenza educativa; una forma di educazione civica perché invita ad assumere un atteggiamento di curiosità e assenza di pregiudizi verso l’altro. Per questo ci piaceva l’idea di sperimentarla con un gruppo di giovani.
Il tema: una generazione allo specchio
In questo progetto pilota, oltre alla formula dell’intervista tra pari, l’altra sfida era che l’oggetto dell’intervista erano i ragazzi stessi. L’obiettivo era infatti quello di offrire un ritratto, ovviamente parziale, della generazione “nata con lo smartphone in mano”, dei suoi tratti distintivi, delle sue fragilità, ma anche delle sue potenzialità e originalità; il proposito era di raccontare come è cambiato, se è cambiato, il rapporto tra generi e tra generazioni, la gestione del tempo libero, l’impegno nel volontariato, il rapporto con la comunità degli adulti, il ruolo e il peso dei social, senza tralasciare il problema del bullismo e la violenza digitale e l’impatto in tutto questo della pandemia e del lockdown.
Appena ho iniziato a buttar giù qualche nota sulle possibili domande, ho capito che stavo partendo con il piede sbagliato, così, conclusa la parte diciamo teorica, ci siamo trovati assieme una mattina e in un paio d’ore, a gruppi, i ragazzi hanno stilato una possibile batteria di domande volte a tratteggiare un ritratto di un membro della cosiddetta generazione “iGen”.
In questa fase, avendo avuto la fortuna di conoscere e studiare sui libri di Luisa Passerini, mi sono ritagliata un piccolo spazio per parlare dei rudimenti teorici di storia orale alla base della metodologia, accennando anche ai lavori molto interessanti di Anne Oakley sull’intervista e in particolare sull’intervistare delle donne.
Abbiamo poi condiviso considerazioni sulla preparazione all’intervista, sulla costruzione della famosa “scaletta” (che nel nostro caso viene preparata più per placare l’ansia dell’intervistatore in caso di silenzi prolungati, che a guidare il dialogo), riflessioni sul setting intervistatore-intervistato e sull’approccio “maieutico” che deve assumere l’intervistatore, sulle varie tipologie di intervista; qualche rudimento sull’utilizzo degli strumenti di raccolta delle voci; brevi cenni sulla trascrizione e sull’editing. Abbiamo poi guardato assieme stralci di videointerviste e infine i ragazzi e le ragazze sono partiti...
L’intervista
Nel corso dell’incontro per preparare una bozza di scaletta, abbiamo discusso anche di come individuare il soggetto da intervistare. Io li avevo invitati a scegliere conoscenti, evitando magari gli amici più stretti. Una studentessa ha però obiettato che le sarebbe piaciuto intervistare proprio l’amica cara perché era un’occasione per parlare di cose di cui solitamente non parlano. Altri hanno seguito il suo esempio. Nella scelta, la maggior parte ha preferito intervistare una persona dello stesso sesso, qualcuno però si è cimentato con il sesso opposto, sia maschi che femmine. È seguito il lavoro di trascrizione e ripulitura dei testi.
C’è stato poi un momento di “restituzione” rispetto allo svolgimento dei vari elaborati.
Infine, purtroppo con poco tempo a disposizione perché l’anno scolastico si avvicinava alla conclusione, ho selezionato alcuni brani da pubblicare in un piccolo volume da dare loro, anche a riconoscimento dell’impegno dedicato al laboratorio. In uno degli incontri conclusivi, a cui ha partecipato anche Alessandro Casellato, che ci ha accompagnato con entusiasmo e generosità lungo l’intero percorso, abbiamo visionato assieme le bozze. Qui è arrivata la conferma, e devo dire anche un po’ la sorpresa per me, della serietà con cui i ragazzi hanno preso questo esperimento, pur nei limiti imposti dagli impegni scolastici. Sinceramente a quel punto ritenevo il lavoro ormai concluso. La mia preoccupazione riguardava alcuni brani in cui soprattutto le ragazze intervistate si erano espresse senza censure, qualcuna confessando anche problemi di autolesionismo. Era più opportuno togliere, cioè censurare, o lasciare? Ne abbiamo discusso in classe. Io ho perorato la causa del lasciare, non solo perché era comunque un tassello del mosaico che doveva andare a costituire un ritratto della loro generazione, ma anche perché offriva l’occasione a un ragazzo o ragazza della loro età con lo stesso malessere di scoprire di non essere l’unico e così di sentirsi meno solo. Gli studenti e le studentesse hanno quindi sottoposto i brani scelti ai loro intervistati per l’approvazione. Nessuno degli intervistati ha scelto l’anonimato, che pure avevamo ipotizzato in alternativa a una eventuale censura. I ragazzi sono però andati oltre: hanno commentato la successione dei brani scelti facendo proposte di spostamenti e integrazioni e infine hanno voluto aggiungere qualche riga conclusiva.
A posteriori mi è dispiaciuto che non ci siano state le condizioni per coinvolgerli maggiormente anche in quest’ultima fase.
Note conclusive
Non avendo rapporti con gli adolescenti, personalmente ho colto questa occasione anche come opportunità per entrare in contatto almeno con qualcuno di loro. Forse perché vittima anch’io di una certa quota di pregiudizi su questa generazione, personalmente sono stata molto colpita dall’ascolto e rilettura delle loro parole, come pure dalla serietà con cui hanno portato a termine il compito assegnato. In fondo parliamo di una terza, quindi di sedicenni. Per un paio di settimane, nei locali della redazione, è stato bello avere tutti i pomeriggi, ragazzi e ragazze che, muniti di registratore, appunti e un po’ di emozione, hanno intervistato un loro coetaneo per circa un’ora. Passato l’imbarazzo iniziale, alla fine erano tutti piuttosto soddisfatti della loro piccola impresa. Vedersi pubblicati in un piccolo volume è stato senz’altro motivo di soddisfazione, ma io ho apprezzato soprattutto il fatto che sia gli intervistatori che gli intervistati abbiano raccontato di come quell’intervista sia stata in qualche modo un momento di svolta nel rapporto con una persona che in fondo non conoscevano come credevano. Una ragazza ha detto che, dopo l’intervista a quella che già prima era un’amica, la relazione è diventata più intima e ora tendono a parlare di cose diverse, più serie, meno superficiali. Altri erano contenti di aver avuto l’occasione di conoscere meglio una persona. In più di un caso l’intervista ha assunto la forma di una conversazione, di un dialogo.
L’intensità e la forza di tanti brani presenti nel libro stanno a testimoniare come le intervistatrici e gli intervistatori abbiano saputo creare il clima giusto.
Nelle interviste sono emersi un poco anche i diversi caratteri dei ragazzi e delle ragazze intervistate: chi più riflessivo, chi più ansioso e pessimista, chi più esuberante e fiducioso, ma anche le loro passioni: lo sport, i videogiochi e infine le loro preoccupazioni e i loro sogni per il futuro.
In particolare nelle ragazze l’ansia, le pressioni (moltiplicate dai social) ad essere “adeguate”, se non perfette, è pressoché costante e mette un po’ di tristezza. Emerge un fondo di fragilità (una “generazione di cristallo” la definisce Sofia nel brano riportato), accanto però alla consapevolezza di quelle che sono comunque le proprie potenzialità e ambizioni. Infine, mi pare, ci vuole in realtà non poco coraggio per riconoscere e condividere le proprie paure e debolezze.
Barbara Bertoncin
Stralci da interviste
Può capitare di cercare negli altri ciò che si cerca in se stessi. Almeno per me è qualcosa di ricorrente in alcuni periodi della mia vita sentire questo vuoto assordante venirmi dal petto per interi mesi e non sapere cosa fare perché nulla e nessuno può riempire quel vuoto… Io fino a poco tempo fa mi tagliavo. Pensa che non lo faccio più non perché non lo voglia, ma perché me lo impediscono le persone a me più care: lo faccio per loro, non per me. Non so... c’è questo dolore mentale... Stare da sola con me stessa mi fa male, mi fa paura, perché mi ritrovo con i miei pensieri e talvolta il dolore è così forte che mi manca il respiro. Io in realtà non sono sola, ma mi sento tale anche con le persone più care... Penso che la nostra generazione si possa definire la “generazione di cristallo”: siamo molto fragili, per la minima cosa ci buttiamo a terra e non siamo capaci di rialzarci da soli e a volte penso che nessuno abbia più sogni... (Sofia, intervistata da Lorenzo Briganti)
Sui social si vede tutta questa gente perfetta, che poi magari non lo è nella vita reale, però tu la vedi così e pensi: “Cavolo! Anch’io vorrei essere così!”. E quindi c’è sempre la spinta a voler essere “ancora più perfetto”; la vita è un po’ così: vuoi sempre piacere alla gente...
[…] Io non sono una persona a cui piace lo sport, quindi non ne pratico; non vado benissimo a scuola, non ho tanti amici, cioè sono una che comunque non ha tanti interessi, non sono una di cui dici: “Vabbé, ha qualcosa di speciale questa persona”, capito? Cioè: io non ho niente di speciale.
(Chiara, intervistata da Filippo Nardi)
Io non mi posso rassegnare all’idea che questo [lo smartphone] sia lo strumento per il quale verrà ricordata la nostra generazione… I giovani di oggi hanno un grandissimo potenziale, siamo una generazione incredibile, non può essere imputata a noi la colpa dell’utilizzo dei cellulari; siamo nati in questo mondo e talvolta ci sono stati affidati nelle mani troppo presto. […] Noi siamo una generazione veramente grande, siamo giovani che hanno idee, ideali, spirito d’intraprendenza; io vedo un grandissimo potenziale, che spesso è frenato. Un esempio è stata la stessa alluvione... i giovani erano in prima linea per dare una mano a spalare il fango, a spostare i mobili; viale Bologna era pieno di ragazzi che andavano insieme nelle case, ognuno si passava il secchio e si liberavano le cantine... c’è ancora quella volontà di aiutare e di mettersi a disposizione degli altri.
(Filippo, intervistato da Maddalena Dogari)
La buona pratica dell'intervista
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Articolo di Barbara Bertoncin
La buona pratica dell'intervista
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