No, nelle società contemporanee, le religioni non sono per niente sulla via di scomparire o di essere messe ai margini, e la condizione delle donne è ben lungi da essere liberata, soprattutto dove l’influenza delle correnti religiose più conservatrici è forte, oserei dire sempre più forte.
Torna dunque d’attualità un libro scritto molti anni fa dall’etnologa Germaine Tillon (1907-2008) che, nel suo L’harem et les cousins (1966, L’harem e la famiglia, tradotto da Medusa nel 2007 ), si pone il problema della responsabilità dei monoteismi nel perdurare del tenace avvilimento della condizione femminile nell’area mediterranea, almeno fino al momento in cui ha scritto. Ma prima di parlare dei risultati, per molti aspetti sorprendenti, della sua ricerca, bisogna parlare di lei, della sua vita così originale e interessante, che ne fa un unicum nelle donne importanti del Novecento. Se ne era reso conto Tzvetan Todorov che le dedicò il volume di saggi Gli altri vivono in noi, e noi viviamo in loro (2011), nonché un’appassionata biografia, ponendola accanto ad altri grandi personaggi contemporanei come Margarete Buber-Neumann, Vasilij Grossman, Primo Levi, Romain Gary. E non tanto perché Tillon abbia avuto più volte nella sua vita un comportamento eroico mostrando grande sprezzo del pericolo, ma perché
-scrive Todorov- “delle esperienze vissute ha saputo fare un uso del tutto particolare”.
La sua formazione, come allieva del grande antropologo Marcel Mauss, inizia nel 1934, con la prima missione etnologica nell’Aurès algerino, dove resterà per sei anni. Le popolazioni berbere che studia le sembrano molto più vicine di quanto si creda alle abitudini dei contadini francesi tradizionali, e comincia quindi a pensare al Mediterraneo come un insieme culturale caratterizzato da profonde omogeneità. Ma Tillon è anche consapevole dei mutamenti interiori che questa ricerca va producendo in lei: “L’appartenenza a una cultura straniera
-scrive- permette di affrancarsi dalle passioni inculcate” e fa sì che uno cominci anche a percepire se stesso dall’esterno. L’etnologa Tillon impara così a osservare il mondo circostante, ogni tipo di mondo, come oggetto di studio, e questo le servirà molto quando sarà chiusa, nel 1942, nel campo di concentramento tedesco di Ravensbruck per attività sovversive contro l’esercito tedesco che occupa la Francia, dopo essere stata tradita da un sacerdote cattolico.
La sua esperienza etnografica, poi quella politica e la vita nel campo le insegnano che alla fine la grande divisione dell’umanità in due categorie è di natura morale: “Vi sono alcuni che preferiscono morire piuttosto che tradire, e altri che preferiscono tradire piuttosto che morire; quelli che sapevano di poter cedere l’ultimo pezzo di pane e quelli che sapevano di poterlo rubare a una malata o a un bambino”. La qualità umana che comincia così a considerare più importante di ogni altra è l’affidabilità. Il suo dolore più forte è la condanna a morte della madre, imprigionata come lei nel campo per aver ospitato su richiesta della figlia due paracadutisti inglesi. Nonostante il terribile dolore provato, Tillon però continua a osservare e a pensare. Capisce che lo scopo dei nazisti è l’annientamento delle detenute, pertanto il solo fatto di sopravvivere, e soprattutto di osservare questo degrado della specie umana mai visto prima, il solo fatto di pensare, costituiscono un modo per contrastare il loro progetto di annientamento. Scopre che la comprensione della situazione in cui si vive non basta a salvare, ma almeno contribuisce a proteggere: decide quindi di condividere questa protezione con le compagne, tenendo loro un corso da etnologa sulla struttura e sulle funzioni del campo. Chi la ascolta racconterà di averne ottenuto conforto. Da questo lavoro nascerà il suo libro su Ravensbruck, l’unico testo che analizzi il funzionamento strutturale di un campo e le sue funzioni mentre racconta la tragica esperienza umana delle detenute. Proprio per questo, appena liberata, combatterà per salvare i prigionieri detenuti nei campi di concentramento dal regime comunista in Russia: “Non potevamo disinteressarci della sorte di coloro che soffrivano ciò che avevamo patito noi”. L’arma di cui dispone sarà sempre solo la verità su questi regimi, la cui realtà s’impegnò per tutta la vita a far conoscere il più possibile.
È proprio a Ravensbruck che Tillon scopre la sua vocazione alla scrittura, a partire dalla sua capacità di considerare le situazioni in cui è immersa come un oggetto non solo da analizzare, ma anche da raccontare con ironia. La prima sua opera sarà infatti uno scritto umoristico volto a risollevare il morale delle compagne detenute, ironizzando sulle loro disavventure.
Nel 1945 arriva finalmente la liberazione. La prigioniera lascia il campo e torna a Parigi dopo tre mesi di convalescenza trascorsi in Svezia. Gli anni successivi, nel suo ricordo, sono i peggiori che abbia mai vissuto, per l’angosciosa scomparsa di ogni ragione per vivere che si è impadronita di lei: gli amici sono stati fucilati, la madre è morta e il lavoro sul campo in Algeria è andato perduto a Ravensbruck. Non solo: Germaine nel campo ha anche perso la fede. Per questo, pur avendo ritrovato il suo posto di ricercatrice, non si sente in grado di ricominciare il suo lavoro di etnologa, e si dedica invece allo studio della Resistenza e della deportazione. L’immersione in questo materiale terribile la soffoca, anche perché si rende conto, scrive Todorov, che “i crimini totalitari sono di una grandezza tale da sfuggire alla giustizia” e che “il male introdotto nel corso del mondo è destinato a restarvi per anni, se non addirittura per secoli”.
Nel 1950, quando in un processo in Germania due sorveglianti di Ravensbruck vengono accusate, a suo parere ingiustamente, di atti di violenza su due prigioniere francesi, va a testimoniare in loro favore. “Se dobbiamo continuare a dire la verità, dobbiamo farlo anche quando ci costa” scrive in proposito a una compagna di prigionia. Il suo impegno non sarà “mai per una causa politica, ma prima per la verità, poi per la giustizia, infine ‘per la povera carne sofferente dell’umanità’”.
Un nuovo coinvolgimento umano e politico sarà per lei la guerra di Algeria, dove si recherà allo scoppio delle ostilità per suggerimento di Luis Massignon. Proprio perché conosce veramente la società algerina, non prende posizione fra i contendenti, ma cerca di attutire la violenza dello scontro, cerca di lavorare per una soluzione negoziale. Il suo scopo non è quello di fermare la guerra, ma di far “calare progressivamente l’odio e il terrore che i due gruppi si ispirano reciprocamente”. Dal momento che Germaine capisce le ragioni degli uni e degli altri. Mentre i nazisti erano “un nemico assolutamente insopportabile”, scrive, gli algerini che insorgono contro il colonialismo francese sono “dei nemici complementari”.
Nel 1957 ottiene un momentaneo successo, convincendo Yacef Saadi, capo dell’azione militare ad Algeri, a una tregua. Le autorità francesi non credono però a questo spiraglio di pace, e continuano le esecuzioni dei terroristi, Yacef viene arrestato, ma Germaine riesce a salvargli la vita. Pensa che giustizia e verità siano più importanti di qualsiasi interesse politico, e proprio per questo, oltre che per il suo infaticabile lavoro volto a far luce sui lager comunisti, la sinistra francese la detesta e la perseguita.
Otterrà infatti una meritatissima cattedra all’École des Hautes études -dove terrà corsi famosi e frequentatissimi sul Magreb- solo grazie al deciso intervento di De Gaulle, quando il generale torna al governo.
Negli anni Sessanta riprende in mano la sua antica ricerca sul Nord Africa, con un libro che affronta il degrado progressivo della condizione femminile nella zona mediterranea, in cui rintraccia i segni di una struttura sociale relativamente omogenea al sud come al nord, coinvolgendo in quasi egual misura le diverse religioni cattolica, ortodossa, ebraica, musulmana. Distingue quindi la fede religiosa dalle pratiche sociali che vengono fatte risalire -attraverso le ricerche sul campo- a epoche anteriori all’avvento di queste religioni. Anzi, nei suoi scritti s’impegna a dimostrare che le religioni hanno cercato tutte di scalfire un ordine familiare arcaico giocato intorno al prestigio sociale del maschio. E vede in corso un’evoluzione incompiuta, per cui “il massimo di alienazione per le donne si riscontra nelle popolazioni mutanti, vale a dire detribalizzate da una sedentarizzazione o urbanizzazione recenti”.
Oggi Germaine riposa al Pantheon, perché, come scrive Todorov, “ha attraversato la vita dando prova di un’umanità fuori dal comune”. Il suo sguardo libero e coraggioso ci invita a continuare a guardare ciò che accade cercando di restare fedeli al vero e al giusto.
Germaine Tillon
in memoria
Una Città n° 305 / 2024 novembre
Articolo di Lucetta Scaraffia
Germaine Tillon
Archivio
DOVE SONO LE SUORE?
Una Città n° 274 / 2021 aprile
Realizzata da Gianni Saporetti
Realizzata da Gianni Saporetti
Lucetta Scaraffia, storica e giornalista, insegna Storia contemporanea all’Università di Roma La Sapienza.
Ci vuoi raccontare la storia di questa rivista dedicata alle donne, che usciva insieme all’Osservatore Romano, e che è ...
Leggi di più
MEDITAZIONE DEL VENERDI’
Una Città n° 265 / 2020 aprile
I lettori dei vangeli sono ormai consapevoli di un fatto innegabile, ma paradossalmente rimasto per secoli ignorato: durante la Passione sono state le donne, le discepole insieme con la madre Maria, a non abbandonare Gesù, a resistere davanti allo ...
Leggi di più
La questione centrale dell'aborto
Una Città n° 272 / 2021 febbraio
“L’aborto è una questione centrale per il femminismo ed è una questione centrale per la Chiesa”, afferma giustamente Agnieszka Graff nell’intervista dedicata alla nuova legge restrittiva contro l’aborto votata i...
Leggi di più
RICORDIAMO LISA FOA
Una Città n° 127 / 2005 Marzo
Abbiamo avuto l’onore come Una città di avere fra i nostri amici e collaboratori Lisa Foa. Il rapporto con Lisa nacque con l’intervista. Poi Lisa stessa fece interviste per noi, in particolare a esuli polacchi e russi, e ci aiutò sempre con consigli e cri...
Leggi di più
LA VISITA: DANILO DOLCI
Una Città n° 303 / 2024 settembre
Allora che cosa fanno i pescatori che da anni reclamano giustizia e non riescono ad averla da chi dovrebbe darla: si ribellano? si mettono a tumultuare? rubano? commettono violenze?
Niente di tutto questo. Arriva Danilo in mezzo a loro e dice: “Voi...
Leggi di più