Lo scorso 19 gennaio, presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, si è tenuto l'incontro dal titolo “Verso il Giorno della Memoria. Ricordare al tempo di Gaza” organizzato da Mai indifferenti-voci ebraiche per la pace (www.maiindifferenti.it), una rete che in occasione del 27 gennaio 2024, dopo pochi mesi dal 7 ottobre e dal successivo attacco a Gaza, scrisse un appello critico verso le scelte del governo israeliano. Pubblichiamo qui l'intervento di David Calef, “I dilemmi dell’ebraismo nel XXI secolo”.

Il mio intervento parte dalla seguente premessa: la risposta dell’esercito israeliano allo spaventoso massacro di Hamas del 7 ottobre non è stata solo un’operazione militare molto cruenta. Durante la controffensiva Israele ha commesso crimini di vario genere. Ma la risposta israeliana è stata anche l’esecuzione di una vendetta nei confronti non solo di chi ha commesso i crimini del 7 ottobre ma dell’intera popolazione palestinese residente nella Striscia.
Se la reazione dello stato ebraico è stata mossa da impulsi di vendetta con il beneplacito della maggioranza degli israeliani e tra l’indifferenza o il consenso di una buona parte della diaspora è lecito chiedersi in quale stato di salute versi l’ebraismo o almeno quella variante dell’ebraismo in ascesa in questa fase storica.
Il sentimento di vendetta non è estraneo all’ebraismo così come non estraneo ad altre culture e ad altre religioni. Un esempio abbastanza noto è quello dei Nokmin (i Vendicatori) una banda di partigiani ebrei comandata da Abba Kovner, combattente della resistenza nel ghetto di Vilnius. A guerra finita, Kovner e una cinquantina di ex-combattenti sopravvissuti alla Shoah, insoddisfatti della punizioni comminate dal tribunale di Norimberga, progettarono di uccidere 6 milioni di tedeschi avvelenando gli acquedotti delle maggiori città tedesche (Porat, 2023).

La letteratura diasporica negli ultimi due anni della seconda guerra mondiale (in yiddish) e quella israeliana (prevalentemente in ebraico) dopo il 1948 sono ricche di romanzi e poesie che descrivono il sentimento di vendetta di molti ebrei nei confronti dei tedeschi (e non solo dei nazisti) e dal 1948 in poi anche nei confronti degli arabi.
Dopo il 7 ottobre, il sentimento di vendetta non ha avuto difficoltà a diffondersi nella società israeliana, in primo luogo perché l’orrore e il trauma che la strage di civili avevano prodotto erano stati enormi ma anche perché da oltre cinquant’anni esisteva una sorta di assuefazione all’esercizio della supremazia nei confronti dei palestinesi. E anche perché gli estremisti, i Ben Gvir, gli Smotrich e una parte della leadership del Likud, hanno intuito la grande opportunità che si presentava loro: il post 7 ottobre era l’occasione che aspettavano da anni per realizzare il sogno di costruire nuovi insediamenti in Cisgiordania ed eventualmente annetterla e ricolonizzare Gaza.
Neanche due settimane dopo il 7 ottobre, un giornalista di “Haaretz” scriveva:
“Non si è mai parlato così tanto di vendetta in Israele… E come se ciò non bastasse, i rabbini dell’esercito ora girano per le basi militari e predicano l’ingiunzione biblica di distruggere Amalek” (Harel, 2023).
Quando si pensa all’ebraismo o almeno quando io penso all’ebraismo la vendetta non è la prima cosa che viene in mente. Anzi. Per spiegare quest’apparente incoerenza faccio un lungo salto indietro.
Per duemila anni gli ebrei non hanno avuto uno stato nazione. Sono stati dispersi come minoranze soggette a poteri altrui subendo persecuzioni ed elaborando nei secoli una cultura composita e divergente, dando uno straordinario contributo alla civiltà occidentale.
Privi di potere politico e militare, gli ebrei non hanno avuto né la possibilità né la vocazione a opprimere altri popoli. Con la costituzione dello Stato di Israele, questo particolare privilegio ha avuto termine e la logica della forza è entrata in modo inedito nel novero delle vocazioni dell’ebraismo, via via prevalendo sulla sua tradizione diasporica disposta al compromesso per sopravvivere nella coesistenza. L’esercizio della forza per gli israeliani non è stata una scelta. Nelle guerre combattute nel 1948, nel 1967 e nel 1973 era in gioco la sopravvivenza dello stato. Combattere e sconfiggere gli eserciti dei paesi arabi della regione è stata una necessità per non scomparire. Ma l’occupazione della Cisgiordania nel 1967 è stata un punto di svolta e ha dato origine a una situazione inedita per Israele e -secondo me- anche per l’ebraismo. In meno di mezzo secolo gli ebrei, che fino a metà degli anni Quaranta vivevano quasi tutti nella diaspora, sono passati da uno stato di vulnerabilità tale da rischiare l’estinzione a un livello che gli consente di esercitare in Israele, e solo in Israele, un potere senza precedenti su una popolazione di non-ebrei. In un orizzonte temporale brevissimo c’è stato quindi un cambiamento eccezionale.
Da una parte il livello oggettivo di vulnerabilità si è ridotto notevolmente ma dall’altra, l’autopercezione del proprio status di vittima tra gli ebrei israeliani è rimasta costante o è addirittura cresciuta. Più Israele ha acquisito capacità di difendersi fino a divenire una super-potenza militare regionale, più si è acuita la percezione di combattere guerre esistenziali per la sopravvivenza.
Questo non deve sorprenderci. Trovarsi a un passo dall’estinzione non è esperienza che si dimentica nel giro di qualche decennio. Detto questo, una cosa è sentirsi vittime quando si è odiati e perseguitati, e un’altra è continuare a sentirsi vittime anche quando lo status di vulnerabilità si riduce drasticamente come è successo agli israeliani tra il 1948 e diciamo il 1982
-l’anno dell’invasione del Libano- e poi fino ai giorni nostri.
Tanto per essere chiari, non sto dicendo che il vittimismo sia una esclusiva degli israeliani o degli ebrei. Negli anni Novanta i serbi hanno scatenato quattro guerre: contro la Slovenia, contro la Croazia, la Bosnia e infine contro il Kossovo sostenendo sempre di essere vittime, di volta in volta dell’eredità politica di Tito, o dei musulmani, o dell’Europa o della Nato. Nel frattempo hanno invaso tutti i paesi della ex Jugoslavia, trovando il tempo di commettere crimini di guerra e contro l’umanità arrivando a eseguire nel 1995 un atto di genocidio a Srebrenica (MacDonald, 2002).
Per quanto riguarda Israele, la superiorità militare israeliana non ha cancellato la sensazione d’insicurezza che è esplosa una volta di più dopo il 7 Ottobre rafforzando la percezione collettiva degli ebrei israeliani di essere vittime della storia.
Il paradosso è che il sionismo dei padri fondatori d’Israele ambiva a emancipare gli ebrei dalla condizione di vittime. Eppure dopo il processo Eichmann (1961), i governanti israeliani hanno approfittato dell’ideologia vittimaria perché hanno compreso che essere riconosciuti come vittime è uno strumento importante per assicurarsi un salvacondotto permanente che esonera lo stato dalla responsabilità qualunque cosa faccia.
La logica è grosso modo la seguente:
• abbiamo subìto un torto terribile
• siamo vittime
• in quanto vittime siamo innocenti perché le vittime sono per definizione sempre innocenti
• e, mediante un temerario salto logico, incapaci di commettere il male.
Di qui la ricorrente auto-designazione di esercito più morale del mondo.
Come ho già detto, non sto affermando che Israele non abbia motivi per sentirsi in pericolo. Difficile, impossibile non continuare a sentirsi vulnerabili dopo la Shoah, dopo le guerre, quelle sì esistenziali, del 1948, del 1967, del 1973, dopo l’ondata di terrorismo suicida della seconda intifada, dopo il 7 ottobre. Resta il fatto che per le leadership israeliane è diventato importante esaltare strumentalmente la condizione di vittima dello stato di Israele. Quanto più la potenza di Tsahal sovrasta quella dei nemici (Hezbollah, Hamas e Iran) tanto più i primi ministri israeliani sottolineano che i conflitti in cui Israele è coinvolto sono esistenziali. Dal loro esito dipende la sopravvivenza di Israele.
Un esempio noto è quello citato dallo storico Benny Morris in Vittime. La sera prima dell’invasione del Libano nel 1982 Menachem Begin disse ai suoi ministri “L’alternativa all’invasione è Treblinka”. Affermazione a cui Amos Oz in una lettera rispose: Hitler è morto 37 anni fa. Hitler non si nasconde a Sidone o a Beirut” (Morris, 2001). Dieci anni più tardi, Netanyahu, allora funzionario nel governo Shamir, impegnato a resistere alle pressioni dei diplomatici americani perché Israele non costruisse nuovi insediamenti in Cisgiordania, affermò che i confini pre-1967 erano “i confini di Auschwitz”.
Netanyahu continua a utilizzare questa retorica in modo molto più sfacciato dei suoi predecessori. In occasione di Yom Ha-shoah, il giorno del ricordo, a maggio dell’anno scorso, il primo ministro, per contrastare la pressione internazionale a stipulare il cessate il fuoco, ha dichiarato “nessuna pressione, nessuna decisione da parte di alcun forum internazionale impedirà a Israele di difendersi”, concludendo: “Mai più è adesso”.
Quest’evocazione ricorrente della minaccia di una nuova Auschwitz, quest’uso senza scrupoli del vittimismo coinvolge anche gli ebrei della diaspora. Qui entra in gioco la rivendicazione israeliana accettata direi quasi unanimemente dalla diaspora, dall’opinione pubblica e soprattutto dalla comunità internazionale che Israele è lo stato degli ebrei, non solo di quelli israeliani -e quindi parla e agisce a nome di tutti gli ebrei. Da alcuni decenni a questa parte, Israele è diventato da anni lo stato guida per milioni di ebrei diasporici. È lo stato che non si mette in discussione in nessuna occasione e per nessun motivo.
Per molti ebrei, non sostenere Israele significa abdicare allo sforzo collettivo per evitare un’altra Shoah. Magari si eccepisce sugli insediamenti, su Netanyahu e sull’estremismo di Ben Gvir, ma in sostanza si condivide l’idea che non sostenere Israele sia venire meno al proprio legame con l’ebraismo. Si resta turbati di fronte alle manifestazioni di antisemitismo, vero e presunto - incluse le proteste contro l’intervento militare esenti da pregiudizio antiebraico ma si guarda con grande distacco la guerra di sterminio a Gaza perché tanto la responsabilità delle morti palestinesi è di Hamas e solo di Hamas.
Questo fenomeno è dovuto almeno in parte al processo in corso da decenni di “israelizzazione” (neologismo terribile) della diaspora secondo cui gli ebrei si definiscono sempre più spesso nel legame con Israele più che nell’osservanza religiosa o nel rispetto di tradizioni millenarie. Il sostegno senza riserve a Israele è diventato -insieme alla memoria della Shoah- uno dei pilastri su cui si fonda l’identità ebraica.
Il risultato è sotto i nostri occhi. In Italia, le istituzioni ebraiche non riescono ad ammettere che Israele sia responsabile della morte di decine di migliaia di civili. Sottoscrivono invece una narrazione secondo la quale ogni giudizio critico nei confronti della condotta militare dell’esercito israeliano a Gaza e in Cisgiordania non è imputabile alle regole d’ingaggio dell’esercito ma sempre e comunque a mala fede, ignoranza e soprattutto all’antisemitismo. Gli esiti di questo pregiudizio a favore di Israele sono inquietanti. Faccio un esempio: l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei) pubblica un mensile che si chiama “Pagine Ebraiche”. Se sfogliate i numeri dal novembre 2023 in poi osserverete che non è facile capire che l’esercito israeliano è impegnato in una guerra che ha causato la morte di oltre 46.000 palestinesi e più di 400 soldati israeliani. I rari riferimenti alla guerra sono per lo più indiretti e obliqui.
In quattordici numeri non troverete una sola foto di Gaza. Se la guerra viene menzionata è solo per riferirne dell’impatto sull’economia israeliana e per ricordare che Hamas tiene ancora in ostaggio un centinaio circa di israeliani. Su “Pagine Ebraiche” c’è spazio per ricette di piatti della tradizione ebraica, editoriali sull’ideologia woke che imperversa nei campus americani, e soprattutto per articoli che stigmatizzano l’antisemitismo. Ma nessun riferimento all’impatto devastante che il conflitto ha avuto sulla popolazione palestinese. Mi sembra che questa straordinaria rimozione derivi da una forma di vittimismo che impedisce di considerare le responsabilità di Israele e rende ciechi di fronte alle ragioni o quantomeno alle sofferenze dei palestinesi.
Questo pudore rivela in che direzione sta andando una variante dell’ebraismo molto popolare in Israele e di riflesso nella diaspora. Non è la prima volta che degli ebrei restano indifferenti di fronte alla sofferenza di un altro popolo, ma quarant’anni fa, in Israele manifestazioni pubbliche di questa cecità nutrita di sciovinismo etno-nazionalista erano rare e poco ascoltate. Oggi non è più così.
Per dare la misura di come sia cambiata la società israeliana in questo senso vale la pena ricordare la figura del rabbino Meir Kahane. Kahane -un cittadino americano emigrato in Israele nel 1971- diede vita a Kach, un partito che, dopo vari tentativi fallimentari, riuscì nel 1984 a entrare alla Knesset. Kach promuoveva un’interpretazione dell’ebraismo esplicitamente razzista auspicando per esempio il trasferimento di tutti gli arabi fuori da Israele e sostenendo che l’ebraismo deve esercitare la vendetta nei confronti dei non-ebrei considerati tutti indistintamente antisemiti. Per Meir Kahane “la vendetta” era “un principio fondamentale dell’ebraismo (Kahane, 1996).” A metà degli anni Ottanta, quando Kahane prendeva la parola alla Knesset, i membri del Likud si alzavano e uscivano dall’aula. Alle elezioni del 1988, Kach fu squalificato in base a una norma che vietava la partecipazione di partiti che incitavano all’odio razziale. E nel 1994, dopo il massacro a Hebron commesso da Baruch Goldstein -membro di Kach- il partito fu dichiarato organizzazione terrorista e messo fuori legge.
Oggi la situazione è molto differente. I politici del Likud organizzano conferenze sulla colonizzazione di Gaza e Itamar Ben Gvir, il discepolo di Kahane di maggior successo, è stato un ministro autorevole nel governo di Netanyahu. Una variante dell’ebraismo esplicitamente sciovinista tendenzialmente anti-democratica, marginale quarant’anni anni fa, è oggi sì minoritaria ma abbastanza influente da gestire le politiche della sicurezza nazionale e da condizionare il corso della guerra ritardando per esempio con successo le trattative per il cessate il fuoco di 7 mesi.
En passant, è importante sottolineare l’ovvio: di ebraismo non ne esiste uno solo. Quello di Kahane è ebraismo a pieno titolo quanto quello di Yeshayahu Leibowitz, il quale, immediatamente dopo la conquista della Cisgiordania nel 1967, criticò l’occupazione e mise gli israeliani in guardia contro i pericoli derivanti dall’idolatria della forza militare e della sacralizzazione della terra (Leibowitz, 1992).
Se una corrente del pensiero ebraico fondata su una combinazione di iper-vittimismo, assuefazione al dominio su un altro popolo e indifferenza o addirittura ostilità ai principi democratici ha alimentato e assecondato la distruzione di Gaza bisogna interrogarsi sullo stato di salute dell’ebraismo. Se l’ebraismo che ha alimentato e incitato alla devastazione della Striscia di Gaza fino a raderla al suolo come Dresda, Grozny e Aleppo con il sostegno di una buona parte della diaspora forse c’è un baco nel programma. E c’è da chiedersi quale mutazione abbia subito il senso comune di un popolo che nella sua maggioranza ha appoggiato il bombardamento indiscriminato di civili.
Gli ebrei sono sopravvissuti nella diaspora invocando diritti per se stessi e per altre minoranze e uguaglianza con i loro concittadini nei paesi europei, in nord-America e in America Latina. Dopo la seconda guerra mondiale hanno ottenuto questi diritti. E adesso che sono maggioranza in Israele negano questi diritti sia in Cisgiordania sia a Gaza. Dopo la legge Stato Nazione del 2018 li negano in parte anche entro la linea verde perché Israele è, per legge, lo stato del popolo ebraico. Ma non delle minoranze arabe e cristiane.
Questo contraddice la cultura ebraica a vocazione universalista per come si è formata nel corso di 2.000 anni. Mi riferisco a quella variante di cui si può essere orgogliosi in un paese democratico. Oggi, a una settimana dal giorno della memoria mentre inizia il cessate il fuoco, bisogna constatare che la visione vendicativa propugnata da Kahane e dai suoi eredi prospera con gli esiti terribili che abbiamo visto dopo il 7 ottobre.
Alla luce della bestiale aggressione di Hamas del 7 ottobre e dei massacri nei 15 mesi successivi, è necessario chiedersi se la sfida principale del mondo ebraico nel XXI secolo non sia proprio quella di rivedere gli stereotipi identitari di vittima eterna che alimentano l’estremismo nazionalista. A mettere a repentaglio Israele e la diaspora che lo segue docilmente non è più la loro vulnerabilità quanto proprio il contrario: la forza e la potenza militare utilizzate non solo come legittima autodifesa ma come strumento di dominio su un altro popolo.

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