Intrattengo da almeno una trentina d’anni un dialogo epistolare con una persona che ormai è diventata un amico. Si chiama Marco V. Borghesi, ma preferisce usare degli eteronomi in una delle sue tante scritture segrete. È uno scrittore che fu apprezzato da intellettuali di qualità come Giulio Bollati e Maria Corti. Dopo due libri pubblicati da Bollati Boringhieri negli anni Novanta, ne ha pubblicati altri in proprio. Si tratta di libri poco commerciali per il loro stile inattuale. Io ho incontrato Marco due volte per poche ore nel corso di trent’anni, ricordo appena il suo volto, ma intratteniamo un ormai voluminoso scambio di lettere avendo usato prima la posta cartacea, e solo più recentemente la posta elettronica. Mi illudo che i nostri eredi, scoprendo un giorno questa corrispondenza, possano trarre motivo di curiosità e qualche giovamento. Una delle nostre ultime lettere riguardava il mio tentativo di trarlo fuori dagli spazi solitari in cui vive proponendogli di continuare un dialogo, questa volta in pubblico, tra un gentile, interessato alla cultura ebraica, e un vecchio letterato agnostico e marginale, però curioso e nascostamente impregnato di una cultura avita che conosce poco ma a cui sente di appartenere. Del mio tentativo, che non ha avuto pieno successo, resta lo scambio di pensieri di questi giorni che non mi pare inutile da riferire.

Io. Assisto quotidianamente a un dialogo tra ebrei faticoso e sofferto, a una spaccatura drammatica nelle comunità italiane come in quelle del mondo, a un litigio perenne e a un desolante cicaleccio astioso, insopportabile, un parlarsi addosso nei social di tanti ebrei italiani, e a una frattura profonda tra loro. Certo, c’è un dolore e una disperazione che tutti ci accomuna. Tuttavia debbo dirti che proprio ora ho maggiormente sentito il peso e le responsabilità delle mie origini e il mio destino di essere ebreo, forse mezzo israeliano anche se furiosamente critico e disperato per la deriva che ha preso quel paese. Ma devo aggiungere che insieme a questo sentimento di appartenenza e di destino esiste in me anche quello di una profonda vergogna per quanto di atrocemente delittuoso Israele ha commesso su quella terra su cui accampa risibili diritti biblici. Sento così l’ostinata esigenza di fare chiarezza, di opporre e rivendicare una qualche empatia tra i sapiens, una qualche individuazione dei problemi centrali, una qualche progettualità, un qualche pensiero di razionalità magari utopica di fronte all’orrido procedere delle cose del mondo. Non è molto, ma non abbiamo altra sorte o altra scelta.
Noi ci troviamo oggi tra il consenso a questo Israele, in cui noi non ci riconosciamo, da parte della destra più ignobile di passati antisemiti, e la radicale contestazione dello stato d’Israele, sin dalle sue origini sioniste tardo ottocentesche, da parte di un pezzo non irrilevante di quella sinistra a cui ritenevamo di appartenere. Lo rappresentano, con una qualche presunta autorevolezza, le tesi dominanti e per me inaccettabili, perché deliberatamente a senso unico e non contestualizzate, che vedono giustamente le colpe d’Israele, ma ignorano o meglio celebrano come virtù quelle palestinesi. Le rappresenta autorevolmente un libro di Enzo Traverso secondo cui i militanti di Hamas nei tunnel di Gaza sono uguali ai partigiani ebrei nelle fogne del ghetto di Varsavia, la violenza del pogrom del 7 ottobre è simile a quella dei rivoluzionari algerini compresa e giustificata negli scritti di Fanon e di Sartre, il sionismo è  puro colonialismo ottocentesco, i kibbutzim socialisti sono fin dall’origine strutture sociali e politiche profondamente anti-arabe, e così via. La specularità del comportamento, dei fini e dei mezzi degli estremismi coranici di Hamas, e di quelli biblici della destra estrema israeliana al potere, è evidente, sebbene non passi per la testa di questi critici radicali di Israele. Se a ciò si aggiunge il consenso generalizzato e immediato nel mondo arabo al pogrom del 7 ottobre, ben prima della sconsiderata reazione israeliana, la popolarità e la diffusione delle tesi dei Protocolli dei Savi di Sion e la crescita esponenziale di un vecchio e nuovo antisemitismo nel mondo, che coinvolge indistintamente tutta la diaspora ebraica, si vede come il discorso vada ben oltre le responsabilità di Israele per quanto accade a Gaza e in Cisgiordania.
Ora, mentre tutto il mondo arabo approva incondizionatamente la mattanza del 7 ottobre, una parte minorit ...[continua]

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