Quattro giovani cineasti e giornalisti che appartengono ai due popoli che si contendono quella terra, due popoli divisi e feroci, invasi dall’odio e dalla violenza, miracolosamente parlano un linguaggio comune e semplicemente osservano ciò che hanno visto accadere a Masafer Yatta tra il 2019 e il 2023, usando come arma uno smartphone e una piccola videocamera.
Il documentario s’intitola “No other land” e gira il mondo, ma non in Israele, se non in modo pressoché clandestino, dove lo si considera come un sabotaggio contro lo stato e appare sotto tono e criticato anche tra gli arabi per una presunta morbidità e per il miraggio di una forma di normalizzazione dei rapporti con l’occupante. Questa duplice riprovazione conferma che il film sta dalla parte giusta. Gli autori vanno ricordati con il loro nome e cognome per il giorno immaginario in cui nascerà il bosco di un Yad Vashem della riconciliazione; si chiamano Basil Adra e Hamdan Ballal, i palestinesi, Yuval Abraham e Rachel Szor, gli israeliani, ma fisicamente quasi non si distinguono. Ho visto “No other land” in un cinema d’essai della periferia torinese, eravamo otto spettatori, faceva freddo, uscimmo in silenzio; io ero pieno di vergogna e di dolore, con voglia di dimissione dalle mie origini. I torti e le ragioni profonde erano lì rotolanti sullo schermo, dentro le sequenze tagliate, confuse, sospese, negli improvvisi bui e passaggi, nella rapidità e sommarietà delle apparizioni, nel peso e nell’ansia di un susseguirsi degli accadimenti che si accatastavano e declinavano le variazioni dello stesso orrore. Ero senza parole, ma non potevo tacere; e fu la poesia il mio luogo di fuga, di commento e di prosimetrica partecipazione.
Le cesoie
Vidi le mani nodose del soldato
impugnare il corso
delle mie lame, non sul ramo
superfluo, ma all’aprirsi
e poi stringere in mio nome al morso
un esile tratto di tubo.
Non farlo gridai
ma sentii netto l’acciaio
incrociare il suo dorso
tranciare di netto
la vena (preziosa) nel piombo
il suo sorso vicino , vidi
lo zampillo al pianto sommesso
alla bocca riarsa di un bambino
e al riso ostile di rabbini
prolifici e stolti,
La betoniera
Giunse presso la valle di Gherac, era l’alba
e costruì un altare, invocò
il nome del Signore e piantò le sue tende.
furono i suoi servi a scavare
e trovarono tre pozzi d’acqua viva:
il primo lo chiamarono Esac
era di nutrimento e sapienza
il secondo Sitrià di guarigione
il terzo Rechot, fu trasparenza e mistero
Masofer Yatta la raggiunsi in segreto
al fondo della notte
mi posarono al bordo dei pozzi
e fu all’alba che conobbi la mia sorte:
fui la mescola degli inerti
nelle pale del tamburo, l’aspirazione
del calcestruzzo, il costante affondarsi
della malta della privazione
una lava di freddo vulcano distesi
torbida grigia vergogna colai
il suo brodo mellifluo
al terreno di un ultimo verd
occlusi le vene, accecai le falde profonde
e a ogni memoria dell’acqua
eccelsa e fallimentare attentai
come ogni sete dei figli e dei padri
fino a che il pozzo sotto a me fu chiuso.
L’escavatrice
I miei cingoli procedevano lenti
a spianare la terra al diritto degli occupanti
I miei denti d’acciaio
disumani e forbiti
le mie nere fauci si accanirono
contro le fragili soglie di una scuola
contro il suo cartongesso
appena posato la notte
N ...[continua]
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