Quella paura di perdere l'anima
israele-palestina
Una Città n° 304 / 2024 ottobre
Intervista a Anna Foa
Realizzata da Barbara Bertoncin
QUELLA PAURA DI PERDERE L'ANIMA
L’incapacità, dopo il 7 ottobre, di provare empatia per i palestinesi anche da parte della sinistra israeliana; un baratro che si allarga e che era il vero obiettivo di Hamas, peraltro condiviso da Netanyahu; si può parlare di colonialismo per il ’48? L’antisionismo è antisemitismo? La paura che avevano i sionisti di perdere l’anima; il regime di apartheid che vige nei territori occupati e la possibilità, che forse c’è ancora, della soluzione a due stati. Intervista ad Anna Foa.
Anna Foa ha insegnato Storia moderna all’Università di Roma La Sapienza. Si è occupata di storia della cultura nella prima età moderna, di storia della mentalità, di storia degli ebrei. Tra le sue pubblicazioni: Ebrei in Europa. Dalla Peste Nera all’emancipazione XIV-XIX secolo, Laterza 2004; Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento; Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43, Laterza 2011; La famiglia F., Laterza 2018; Gli ebrei in Italia. I primi 2000 anni, Laterza, 2022. Il libro di cui si parla nell’intervista è Il suicidio di Israele, Laterza, 2024.
Partiamo dal 7 ottobre, un evento che ha colpito un paese già profondamente diviso...
Il 7 ottobre è stato un drastico spartiacque nella storia di Israele, e non solo di Israele; un trauma che ancora non è stato assolutamente rielaborato. Purtroppo l’esistenza di ostaggi ancora nelle mani di Hamas, e di cui forse la metà almeno sono morti -ma di cui gli israeliani vogliono riavere i corpi- implica che questo trauma continui a sussistere, che questa ferita non possa cominciare a rimarginarsi. Il ritorno degli ostaggi potrebbe forse contribuire a cambiare la situazione. Prima che venissero assassinati quei sei ostaggi che stavano per essere liberati, c’era la sensazione che potesse cambiare qualcosa, che potesse cadere Netanyahu, perché ci sono state delle manifestazioni grandissime. Invece anche questo è stato riassorbito da questo temibile e terribile governo.
Questo è un primo dato di fatto. Poi, certamente, il 7 ottobre ha cambiato le percezioni che hanno gli israeliani del rapporto con gli arabi, anche quelli di sinistra. Questa è una vicenda tragica, perché parliamo di persone che avevano dato tutte se stesse per lavorare insieme con i palestinesi, per cercare un accordo, che erano sinceramente democratiche, che capivano che l’occupazione non poteva sopravvivere, e che adesso si trovano molto sbilanciati e non hanno più alcun senso di sicurezza, pensano di poter essere sgozzate da un momento all’altro. In molte persone che conosco ho visto una sorta di passo indietro.
Come non bastasse, dopo l'attacco dei walkie-talkie, Netanyahu ha riguadagnato popolarità.
Dicevi di una sopravvenuta incapacità di provare empatia...
L’altra conseguenza drammatica, come si leggeva in un articolo di “Haaretz” uscito un paio di mesi fa, è che gli ebrei israeliani non riescono a provare empatia per i palestinesi di Gaza. Non tutti ovviamente, però anche nella sinistra israeliana non si riesce a provare empatia.
Si sta insomma scavando un baratro, che è poi quello che voleva Hamas. Non credo infatti che sia stata una mera barbarie, è stata un’azione preordinata per scatenare una paura e un orrore mai visti. Ecco anche il richiamo alla Shoah, che non è un richiamo storico ovviamente, e però di nuovo gli ebrei si sono resi conto di trovarsi di fronte a un orrore mai visto prima.
Aggiungo che quando il segretario dell'Onu ha detto quella frase sul fatto che gli attacchi del 7 ottobre non vengono dal nulla, a mio avviso voleva dire che dietro c’è un retroscena, c’è l’occupazione, ci sono grandissime tensioni, non voleva giustificarlo. Comunque, vero è che quasi immediatamente c’è stato un rovesciamento: ancor prima che gli israeliani entrassero a Gaza, da più parti il 7 ottobre è stato visto come una forma di resistenza legittima. Ho trovato veramente strana e difficilmente comprensibile la velocità con cui l’opinione pubblica occidentale ha rimosso, se non giustificato, quelle azioni facendole rientrare quasi in una normalità. Invece questo attacco terroristico, perché di questo si è trattato, è una novità proprio per l’orrore e il baratro che ha creato tra i palestinesi e gli ebrei in Israele.
In questi mesi, da un lato, si è tornati a parlare del 48 come di un progetto coloniale e dall’altra a equiparare antisionismo e antisemitismo. Nel libro ripercorri la storia di Israele cercando di fare chiarezza.
Le domande cruciali sono: il sionismo è un colonialismo? Si può parlare di Apartheid? E infine: l’antisionismo è antisemitismo? A partire da queste domande, ho cercato di costruire una storia del sionismo, facendo riferimento soprattutto alla storiografia israeliana, quella tradotta in lingua inglese, che è molto più avanzata di quella europea e offre informazioni e un taglio critico che cambiano moltissimo le carte in tavola. Non penso solo al lavoro dei nuovi storici, qui c’è qualche cosa di più. Per dire, i dati raccolti da Benny Morris, che sono ormai molto vecchi, sono riconosciuti e approvati da tutta la storiografia israeliana. Lui poi nel tempo ha cambiato la sua interpretazione, vedendo in quell’espulsione una necessità, ma non ha mai contestato i dati.
Veniamo dunque alla storia. Noi abbiamo un progetto che all’inizio ha ben poco di coloniale: è un progetto di rinascita nazionale, che non è mosso da uno Stato e non si attua con le armi. Questi sono elementi di differenziazione rispetto ai tradizionali colonialismi europei. Infatti si usa l’espressione “settler colonialism”, viene cercata una denominazione diversa per definirlo. A partire da questo contesto intervengono poi alcuni momenti di cesura, che cambiano radicalmente la situazione. Uno è il 48 e la Nakba, il termine che la destra israeliana non vuole usare, ma che ormai è entrato anche nell’uso storiografico. C’è un libro recente intitolato Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma, di Bashir Bashir e Amos Goldberg.
Nel 48 assistiamo a una cacciata, pur con varie fasi e intensità... Certo, ci sono anche qui delle differenziazioni, per esempio molti a sinistra rispetto a Benny Morris hanno detto che in realtà esisteva un progetto precedente, già negli anni Trenta, che prevedeva uno spostamento dei palestinesi, però Morris, che rimane il più accreditato rispetto ai numeri, sostiene che non c’è alcuna prova che il piano sia stato messo in atto.
Resta il fatto di una cacciata di 700-750 mila palestinesi dalle loro case e poi di 150 mila palestinesi circa che ottengono la cittadinanza israeliana su un principio, che è quello della Fondazione dello Stato, della Dichiarazione d’Indipendenza, che sancisce “uguali diritti”. In realtà i diritti non sono affatto uguali: fino al ’66, cioè alla vigilia della Guerra dei sei giorni, i palestinesi sono sottoposti a una giurisdizione militare, quindi c’è una differenziazione netta. Giurisdizione militare vuol dire difficoltà a muoversi, difficoltà nel passaggio ai checkpoint, che sono particolarmente gravi per i palestinesi e che annullano in qualche modo la loro libertà.
Poi ci sono le “infiltrazioni”, come le chiamano gli israeliani, che a volte certamente sono tali quando si tratta dei fedayin, ma a volte sono soltanto persone che vanno a salutare la madre o a mungere la mucca. L’altra data è quella del pogrom attuato a Deir Yassin dalle bande dell’Irgun di Begin. Nel libro riporto una lettera al “New York Times” molto bella sottoscritta anche da Albert Einstein e Hannah Arendt, in cui si denuncia l’accaduto. Poi c’è il ’67, anche qui altri lutti, altri massacri, come quello di Kfar Kassem. Tutti eventi che incidono sulla percezione che i palestinesi hanno degli israeliani, visti appunto come dei conquistatori che ti prendono le case e la terra.
C’è qui un elemento di colonialismo, pur diverso da quello tradizionale? Nel ’67 c’è la conquista della Cisgiordania, che con la guerra del ’48 era passata non allo stato palestinese, ma alla Giordania (anche perché c’era stata una trattativa fra gli israeliani e la Giordania, questo gli storici lo dicono). A quel punto, su questo elemento, concreto, coloniale, si inserisce anche un’ideologia coloniale, che è quella appunto dei coloni, dei messianici, di chi vuole la Grande Israele.
Qui un’altra domanda che si pone è: gli arabi volevano buttare a mare Israele? La nuova storiografia sostiene di no; che c’era tutto un gioco di politica, di propaganda: gli arabi dicevano di volerlo fare anche nel quadro di una forte conflittualità fra i paesi arabi.
Comunque con la guerra del ’67 assistiamo a un cambiamento di nuovo epocale, che in qualche modo prelude alle trasformazioni in atto dal ’77 in poi, con l’avvento della destra al potere. Nel frattempo è cambiata la base di Israele: si è ridimensionato il potere della tradizionale élite askenazita, è cresciuta la presenza degli ebrei dei paesi arabi, che da questi sono stati cacciati, e che sono molto meno legati al vecchio ebraismo della diaspora europea, al suo universalismo, a tutta una serie di elementi che caratterizzano alcune parti del primo sionismo; penso a Brit Shalom, l’organizzazione che sosteneva la coesistenza tra ebrei e arabi.
Infine si arriva alla destra al potere, alla breve stagione di Oslo, un tentativo di pacificazione che fallisce clamorosamente, e non solo perché i palestinesi non riconoscono l’esistenza di Israele (nei paesi arabi è molto difficile interpretare i proclami dei leader massimi, distinguere quello che è propaganda da quello che è realtà). La storiografia oggi mette in discussione la versione per cui sarebbe stata solo colpa dei paesi arabi. Certamente nell’ultimo fallimento, quello di Annapolis, un ruolo l’hanno avuto i coloni e le forze di destra oltranziste israeliane.
La situazione precipita nel 1994 con il terribile attentato di Baruch Goldstein alla Moschea di Hebron, che porta i palestinesi a credere che non ci sia più una strada per la pace. Fino all’assassinio di Rabin.
Colpisce, leggendo i testi che proponi, ma anche il libro Brutti ricordi, di Anita Shapira, come in Israele, all'epoca, ci fosse un dibattito molto franco, anche spregiudicato, sulle azioni che avevano portato all’espulsione dei palestinesi.
Dopo il massacro di Deir Yassin, in Israele si era arrivati a parlare di “nazismo”; sulla stampa mettevano in guardia: “Abbiamo accolto i principi nazisti dentro di noi” e lo dicevano gli ebrei. C’era e c’è anche un dibattito storiografico molto vivace su questi temi. Vorrei qui ricordare un grande storico, morto recentemente, Alon Confino; suo nonno era Enzo Sereni. Ecco, Alon era un sostenitore di questa nuova storiografia; prima di ammalarsi, aveva lavorato anche con Amos Goldberg e Bashir Bashir sulla Nakba.
Oggi si ricorda spesso il monito di Leibowitz sulla questione dei territori occupati e sui rischi di una “deumanizzazione” di Israele.
Leibowitz è un personaggio fuori dalle righe, così anomalo, ultra ortodosso, ma al tempo stesso uno che sosteneva che Dio non ha affatto detto che ci deve essere la Grande Israele. Una figura straordinaria. Ecco, lui non esitava a usare l’espressione “Giudeo nazi”. È vero che tutto può assumere un altro significato in base al contesto, però sapere che questi dibattiti siano nati lì, che ci fossero queste forme di autoflagellazione, autocolpevolizzazione, come a dire: attenzione, non dobbiamo diventare così; tutto questo mi sembra importante.
Quand’è che Israele diventa lo “Stato degli ebrei”?
Da subito, purtroppo. Già nel ’48. In un primo momento non c’è questa percezione. La storiografia segnala che mancherebbero alcuni elementi nella Dichiarazione dell’indipendenza; sulla carta i diritti vengono concessi “come agli ebrei”, ma in realtà sappiamo che non è così perché, come ricordavo, fino al 1966, i palestinesi con cittadinanza israeliana sono sottoposti a uno status militare, che è molto diverso da uno status civile. I semi del fatto che Israele sia una democrazia solo per gli ebrei, una democrazia peraltro limitata e comunque una non-democrazia per quanto riguarda i territori occupati, sono già lì.
In fondo lo “Stato degli ebrei” è la formula di Herzl. Certamente all’epoca questa formula aveva un altro significato: si pensava a un posto dove gli ebrei potessero rifugiarsi; questa era l’idea di Herzl. Il significato cambia con il sionismo spirituale, quando si pensa a un posto in cui gli ebrei possano “rinascere”. In questa rinascita c’è già un elemento che in qualche modo assegna uno statuto maggioritario. Però parliamo di personaggi che comunque volevano vivere in pace con i palestinesi.
La legge del 2018, voluta da Netanyahu, sancisce la supremazia ebraica e fra l’altro declassa il bilinguismo ebraico e arabo del Paese.
Già Jeff Halper ci spiegava che della triade “territorio”, “Stato degli ebrei”, “democrazia”, Israele poteva sceglierne solo due e doveva scegliere.
I post sionisti dicono che l’unica strada è rinunciare alla formula “Stato degli ebrei”: non puoi avere uno stato dove vige un diritto per gli ebrei e uno per i non ebrei. Ovviamente in Israele non c’è l’apartheid: ci sono palestinesi israeliani nelle università, tra i primari ospedalieri, ovunque. Tuttavia, appena varchi il confine e vai nel West Bank, c’è praticamente uno stato di apartheid; il muro lo sancisce visibilmente; lo riconoscono anche gli israeliani.
Tempo fa ho letto su “Haaretz” un pezzo di un israeliano nato in Sudafrica, Benjamin Poground, che aveva combattuto contro l’apartheid, per anni si era ribellato a quella definizione per Israele e che infine diceva: “Mi devo ricredere”.
La soluzione dei due stati è ancora percorribile?
Non c’è altra strada. Evidentemente è molto difficile, quasi impossibile, ma c’è un'altra strada? O fai la pulizia etnica e ti sbarazzi di tutti i palestinesi e fai lo stato ebraico o fai due stati.
Io credo che qui il tema sia come superare questo trauma terribile e tornare almeno a prima del 7 ottobre, quando fra il mondo palestinese e il mondo ebraico dei rapporti c’erano. Dopo no. Se ti mettono un coltello alla gola o ti violentano la figlia, è chiaro che diventa tutto più difficile.
Poi c’è la questione dei coloni, che sta precipitando...
Anche lì, una parte dei coloni sono fanatici e vanno repressi; l’altra parte sono andati lì perché costa di meno, perché hanno delle facilitazioni. Basterebbe mandarli in un altro posto; si è parlato del Negev. È chiaro che ci sarà lo zoccolo duro che non vuole andarsene, però la maggior parte sono persone che vanno lì semplicemente per pagare di meno e fruire di agevolazioni.
Parallelamente a quella di Israele, nei decenni è cambiata anche l’identità della diaspora.
Il 48 è anche uno strappo con la diaspora. La diaspora è quella degli ebrei curvi, brutti, che piegano il capo. Se l’immagine del sabra è quella di Paul Newman, l’ebreo della diaspora è una sorta di Woody Allen. Con la nascita dello Stato assistiamo anche a un rifacimento dei corpi: vivere in campagna, a contatto con la terra, modifica il fisico.
Per la verità, la diaspora è molto filoisraeliana dopo il ’45. Penso all’Italia, dove tutti diventano sionisti, non nel senso che partono, ma politicamente. Molti pensano che la nascita dello Stato impedirà un’altra Shoah; considerazione abbastanza assurda. Mio padre diceva sempre: “A me non sembra che Israele sia così sicuro...”. Era l’epoca degli attentati terroristici degli anni Novanta, e lui: “Dicono che gli ebrei là siano più sicuri, sarà, ma a me non sembra!”.
Dall’altra parte, la diaspora in Italia non dà un grandissimo sviluppo all’aliyah, all’andata in Israele. Le grandi masse che ci vanno sono quelli che non hanno più un posto dove stare, come gli ebrei polacchi, almeno fino agli anni Sessanta, quando invece cominciano a scegliere le città occidentali.
Comunque molte di queste navi partono dall’Italia. Non solo: i portuali scendono in sciopero per aiutare le navi dei profughi ebrei a salpare per Eretz Israel; c’è insomma un forte appoggio della popolazione all’Aliyah Bet, all’immigrazione clandestina in quelli che sono ancora i territori del Mandato britannico; scendere in sciopero per un portuale voleva dire perdere la giornata di lavoro.
A Genova, La Spezia, Trieste, ma ovunque, anche in una piccola caletta a Scauri Minturno c’era un’organizzazione sionista che faceva partire delle barche, delle carrette dei mari per la Palestina. Credo che questo appoggio abbia aiutato a rimarginare almeno in parte le ferite del 38, poi se ne sono dimenticati tutti.
Riguardo al rapporto ebrei-Israele? Nel 2019, all’indomani di alcuni attentati in Francia, un ministro israeliano disse: “Tornate a casa”, e molti ebrei francesi gli risposero: “Siamo già a casa”.
Non era la prima volta. Circola questa idea di riprendersi gli ebrei della diaspora. Che poi non era così inizialmente. Gli ebrei che non erano sionisti non li volevano. Ripeto, Israele era il luogo dove rinascere, non dove trovare rifugio. Resta il fatto che i sopravvissuti della Shoah in Israele hanno figli e nipoti che perpetuano il trauma. Una parte di questa società ha un trauma non sanato alle sue origini.
Sia quella palestinese che quella israeliana sono identità con alle origini un trauma...
È il tema del libro di Bashir Bashir e Amos Goldberg. Ci sarà mai la possibilità di mettere insieme queste due identità? Stranamente c’erano più possibilità un secolo fa, all’inizio del Novecento, quando le élite palestinesi e ebraiche si frequentavano.
Tornando al ruolo della diaspora, almeno quella europea purtroppo non fa quasi nulla; quella americana, a New York e in California, è più attiva. Certo, gli episodi di antisemitismo registrati in alcune università americane rendono tutto più difficile. Leggevo di qualcuno che raccontava di essere stato a una manifestazione con un amico israeliano, molto di sinistra, che però al terzo slogan antisemita ha voluto andarsene, perché non reggeva. È molto difficile per un ebreo della diaspora portare avanti una battaglia e al contempo confrontarsi con questo odio. Spesso di tratta di piccole minoranze, ma altre volte il movimento per il boicottaggio è forte e c’è pure l’influenza dei palestinesi più radicalizzati, che sono presenti nelle università.
Io non credo che oggi in Occidente ci siano dei livelli di antisemitismo tali da creare un pericolo. Io non mi sento assolutamente in pericolo. Chi mi conosce sa che sono ebrea e siccome sono apparsa in televisione possono anche riconoscermi. Non per questo mi sento in pericolo. Però conosco molta gente che invece si sente insicura. Da alcuni mesi il Giornale dell’Unione delle comunità ebraiche mi arriva con un foglio bianco sopra per nascondere l’intestazione. Trovo che questo susciti paura e basta. Io sono contraria. Comunque quello che voglio dire è che io non credo che siamo ancora a un livello d’allarme. In Francia ci sono state azioni gravi, ma lì c’è anche la questione di questi giovani che si radicalizzano sull’Islam. C’è una questione post coloniale. In Italia di libici abbiamo solo gli ebrei, non abbiamo seconde e terze generazioni, sennò chissà, forse succederebbe come con gli algerini e i tunisini in Francia.
C’è poi un altro elemento di cui parlava recentemente la mia amica Manuela Consonni e cioè che è finita l’eccezionalità ebraica. Può essere che ritorni sul mito dell’invincibilità, se riescono a vincere. Io non credo. Ora c’è stata questa sofisticata operazione con le bombe e i walkie talkie, però... non so. Penso piuttosto che possano drammaticamente perdere quando parlo di suicidio.
Tu non ti riferisci a una sconfitta militare.
Mi riferisco a un suicidio morale. La mia preoccupazione è che si sia perduta l’anima di Israele. Nel momento in cui non riesci a provare pietà per i bambini di Gaza, nel momento in cui si spara su degli ostaggi in fuga disarmati che mostrano bandiera bianca...
Questa è proprio la cosa che i sionisti temevano all’inizio: di perdere l’anima occupando una terra non loro. L’avevano anche scritto e ora è successo. Mi è stato rimproverato di volere la fine di Israele. Ovviamente non è quello che penso. Credo e auspico che vivano in pace o almeno che ci sia una tregua con i vicini. Per ora vedo difficile un sollevamento interno; l’avevo sperato per tutto il 2023; penso che ci vorrebbe una pressione internazionale, degli stati, non soltanto dell’Onu, con tutte le difficoltà, ma anche degli Stati Uniti -speriamo!- di Kamala Harris.
Per me, però, il suicidio è anche lo scenario di un Israele fascista. Perché adesso la violenza si sta ripiegando verso l’interno: la repressione della polizia di Ben-Gvir contro i manifestanti di sinistra è fortissima; ora hanno proibito le manifestazioni con più di mille o duemila persone, hanno risolto il problema così.
Si sono giustificati con l’argomento che c’è una guerra in corso. Si può anche capire, io però vorrei ricordare che durante la guerra dell’82 in Israele scese in piazza mezzo milione di persone. Fino a che non è scoppiato il Libano, per gli ostaggi c’erano oltre settecentomila persone in piazza. Adesso non più di mille o duemila, questo vuol dire che non si manifesta più. Certo, c’è la guerra, ma questo è ciò che fanno i dittatori quando si sentono in difficoltà.
So che ci sono molte forze in Israele che, come la mia amica Manuela, quotidianamente, nelle piccole come nelle grandi cose, dentro le università, negli uffici, si stanno battendo affinché non ci siano discriminazioni verso i palestinesi, affinché l’odio non si ripercuota su di loro. Non dimentichiamo che i palestinesi cittadini israeliani sono il 22%.
I miei amici e conoscenti in Israele andavano tutti alle manifestazioni. Il problema è il rapporto con i palestinesi che è cambiato. Anche perché il governo Netanyahu ha subito fatto un tutt’uno dei palestinesi con Hamas. E perché i palestinesi stessi -anche questo va detto- non hanno avuto la forza di rappresentarsi come antagonisti ad Hamas. Se lo avessero fatto forse le cose sarebbero andate diversamente. Ma non ne hanno la forza. Sono umiliati, la loro base è piena di rabbia e non lo possono fare. Però era l’unica strada che avevano in quel momento. L’operazione di Hamas è stata davvero micidiale perché ha colpito proprio le aree dove c’erano gli ebrei di sinistra, quelli in buone relazioni con i palestinesi. Come a dire: “Ecco, avete visto?”.
(a cura di Barbara Bertoncin)
Partiamo dal 7 ottobre, un evento che ha colpito un paese già profondamente diviso...
Il 7 ottobre è stato un drastico spartiacque nella storia di Israele, e non solo di Israele; un trauma che ancora non è stato assolutamente rielaborato. Purtroppo l’esistenza di ostaggi ancora nelle mani di Hamas, e di cui forse la metà almeno sono morti -ma di cui gli israeliani vogliono riavere i corpi- implica che questo trauma continui a sussistere, che questa ferita non possa cominciare a rimarginarsi. Il ritorno degli ostaggi potrebbe forse contribuire a cambiare la situazione. Prima che venissero assassinati quei sei ostaggi che stavano per essere liberati, c’era la sensazione che potesse cambiare qualcosa, che potesse cadere Netanyahu, perché ci sono state delle manifestazioni grandissime. Invece anche questo è stato riassorbito da questo temibile e terribile governo.
Questo è un primo dato di fatto. Poi, certamente, il 7 ottobre ha cambiato le percezioni che hanno gli israeliani del rapporto con gli arabi, anche quelli di sinistra. Questa è una vicenda tragica, perché parliamo di persone che avevano dato tutte se stesse per lavorare insieme con i palestinesi, per cercare un accordo, che erano sinceramente democratiche, che capivano che l’occupazione non poteva sopravvivere, e che adesso si trovano molto sbilanciati e non hanno più alcun senso di sicurezza, pensano di poter essere sgozzate da un momento all’altro. In molte persone che conosco ho visto una sorta di passo indietro.
Come non bastasse, dopo l'attacco dei walkie-talkie, Netanyahu ha riguadagnato popolarità.
Dicevi di una sopravvenuta incapacità di provare empatia...
L’altra conseguenza drammatica, come si leggeva in un articolo di “Haaretz” uscito un paio di mesi fa, è che gli ebrei israeliani non riescono a provare empatia per i palestinesi di Gaza. Non tutti ovviamente, però anche nella sinistra israeliana non si riesce a provare empatia.
Si sta insomma scavando un baratro, che è poi quello che voleva Hamas. Non credo infatti che sia stata una mera barbarie, è stata un’azione preordinata per scatenare una paura e un orrore mai visti. Ecco anche il richiamo alla Shoah, che non è un richiamo storico ovviamente, e però di nuovo gli ebrei si sono resi conto di trovarsi di fronte a un orrore mai visto prima.
Aggiungo che quando il segretario dell'Onu ha detto quella frase sul fatto che gli attacchi del 7 ottobre non vengono dal nulla, a mio avviso voleva dire che dietro c’è un retroscena, c’è l’occupazione, ci sono grandissime tensioni, non voleva giustificarlo. Comunque, vero è che quasi immediatamente c’è stato un rovesciamento: ancor prima che gli israeliani entrassero a Gaza, da più parti il 7 ottobre è stato visto come una forma di resistenza legittima. Ho trovato veramente strana e difficilmente comprensibile la velocità con cui l’opinione pubblica occidentale ha rimosso, se non giustificato, quelle azioni facendole rientrare quasi in una normalità. Invece questo attacco terroristico, perché di questo si è trattato, è una novità proprio per l’orrore e il baratro che ha creato tra i palestinesi e gli ebrei in Israele.
In questi mesi, da un lato, si è tornati a parlare del 48 come di un progetto coloniale e dall’altra a equiparare antisionismo e antisemitismo. Nel libro ripercorri la storia di Israele cercando di fare chiarezza.
Le domande cruciali sono: il sionismo è un colonialismo? Si può parlare di Apartheid? E infine: l’antisionismo è antisemitismo? A partire da queste domande, ho cercato di costruire una storia del sionismo, facendo riferimento soprattutto alla storiografia israeliana, quella tradotta in lingua inglese, che è molto più avanzata di quella europea e offre informazioni e un taglio critico che cambiano moltissimo le carte in tavola. Non penso solo al lavoro dei nuovi storici, qui c’è qualche cosa di più. Per dire, i dati raccolti da Benny Morris, che sono ormai molto vecchi, sono riconosciuti e approvati da tutta la storiografia israeliana. Lui poi nel tempo ha cambiato la sua interpretazione, vedendo in quell’espulsione una necessità, ma non ha mai contestato i dati.
Veniamo dunque alla storia. Noi abbiamo un progetto che all’inizio ha ben poco di coloniale: è un progetto di rinascita nazionale, che non è mosso da uno Stato e non si attua con le armi. Questi sono elementi di differenziazione rispetto ai tradizionali colonialismi europei. Infatti si usa l’espressione “settler colonialism”, viene cercata una denominazione diversa per definirlo. A partire da questo contesto intervengono poi alcuni momenti di cesura, che cambiano radicalmente la situazione. Uno è il 48 e la Nakba, il termine che la destra israeliana non vuole usare, ma che ormai è entrato anche nell’uso storiografico. C’è un libro recente intitolato Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma, di Bashir Bashir e Amos Goldberg.
Nel 48 assistiamo a una cacciata, pur con varie fasi e intensità... Certo, ci sono anche qui delle differenziazioni, per esempio molti a sinistra rispetto a Benny Morris hanno detto che in realtà esisteva un progetto precedente, già negli anni Trenta, che prevedeva uno spostamento dei palestinesi, però Morris, che rimane il più accreditato rispetto ai numeri, sostiene che non c’è alcuna prova che il piano sia stato messo in atto.
Resta il fatto di una cacciata di 700-750 mila palestinesi dalle loro case e poi di 150 mila palestinesi circa che ottengono la cittadinanza israeliana su un principio, che è quello della Fondazione dello Stato, della Dichiarazione d’Indipendenza, che sancisce “uguali diritti”. In realtà i diritti non sono affatto uguali: fino al ’66, cioè alla vigilia della Guerra dei sei giorni, i palestinesi sono sottoposti a una giurisdizione militare, quindi c’è una differenziazione netta. Giurisdizione militare vuol dire difficoltà a muoversi, difficoltà nel passaggio ai checkpoint, che sono particolarmente gravi per i palestinesi e che annullano in qualche modo la loro libertà.
Poi ci sono le “infiltrazioni”, come le chiamano gli israeliani, che a volte certamente sono tali quando si tratta dei fedayin, ma a volte sono soltanto persone che vanno a salutare la madre o a mungere la mucca. L’altra data è quella del pogrom attuato a Deir Yassin dalle bande dell’Irgun di Begin. Nel libro riporto una lettera al “New York Times” molto bella sottoscritta anche da Albert Einstein e Hannah Arendt, in cui si denuncia l’accaduto. Poi c’è il ’67, anche qui altri lutti, altri massacri, come quello di Kfar Kassem. Tutti eventi che incidono sulla percezione che i palestinesi hanno degli israeliani, visti appunto come dei conquistatori che ti prendono le case e la terra.
C’è qui un elemento di colonialismo, pur diverso da quello tradizionale? Nel ’67 c’è la conquista della Cisgiordania, che con la guerra del ’48 era passata non allo stato palestinese, ma alla Giordania (anche perché c’era stata una trattativa fra gli israeliani e la Giordania, questo gli storici lo dicono). A quel punto, su questo elemento, concreto, coloniale, si inserisce anche un’ideologia coloniale, che è quella appunto dei coloni, dei messianici, di chi vuole la Grande Israele.
Qui un’altra domanda che si pone è: gli arabi volevano buttare a mare Israele? La nuova storiografia sostiene di no; che c’era tutto un gioco di politica, di propaganda: gli arabi dicevano di volerlo fare anche nel quadro di una forte conflittualità fra i paesi arabi.
Comunque con la guerra del ’67 assistiamo a un cambiamento di nuovo epocale, che in qualche modo prelude alle trasformazioni in atto dal ’77 in poi, con l’avvento della destra al potere. Nel frattempo è cambiata la base di Israele: si è ridimensionato il potere della tradizionale élite askenazita, è cresciuta la presenza degli ebrei dei paesi arabi, che da questi sono stati cacciati, e che sono molto meno legati al vecchio ebraismo della diaspora europea, al suo universalismo, a tutta una serie di elementi che caratterizzano alcune parti del primo sionismo; penso a Brit Shalom, l’organizzazione che sosteneva la coesistenza tra ebrei e arabi.
Infine si arriva alla destra al potere, alla breve stagione di Oslo, un tentativo di pacificazione che fallisce clamorosamente, e non solo perché i palestinesi non riconoscono l’esistenza di Israele (nei paesi arabi è molto difficile interpretare i proclami dei leader massimi, distinguere quello che è propaganda da quello che è realtà). La storiografia oggi mette in discussione la versione per cui sarebbe stata solo colpa dei paesi arabi. Certamente nell’ultimo fallimento, quello di Annapolis, un ruolo l’hanno avuto i coloni e le forze di destra oltranziste israeliane.
La situazione precipita nel 1994 con il terribile attentato di Baruch Goldstein alla Moschea di Hebron, che porta i palestinesi a credere che non ci sia più una strada per la pace. Fino all’assassinio di Rabin.
Colpisce, leggendo i testi che proponi, ma anche il libro Brutti ricordi, di Anita Shapira, come in Israele, all'epoca, ci fosse un dibattito molto franco, anche spregiudicato, sulle azioni che avevano portato all’espulsione dei palestinesi.
Dopo il massacro di Deir Yassin, in Israele si era arrivati a parlare di “nazismo”; sulla stampa mettevano in guardia: “Abbiamo accolto i principi nazisti dentro di noi” e lo dicevano gli ebrei. C’era e c’è anche un dibattito storiografico molto vivace su questi temi. Vorrei qui ricordare un grande storico, morto recentemente, Alon Confino; suo nonno era Enzo Sereni. Ecco, Alon era un sostenitore di questa nuova storiografia; prima di ammalarsi, aveva lavorato anche con Amos Goldberg e Bashir Bashir sulla Nakba.
Oggi si ricorda spesso il monito di Leibowitz sulla questione dei territori occupati e sui rischi di una “deumanizzazione” di Israele.
Leibowitz è un personaggio fuori dalle righe, così anomalo, ultra ortodosso, ma al tempo stesso uno che sosteneva che Dio non ha affatto detto che ci deve essere la Grande Israele. Una figura straordinaria. Ecco, lui non esitava a usare l’espressione “Giudeo nazi”. È vero che tutto può assumere un altro significato in base al contesto, però sapere che questi dibattiti siano nati lì, che ci fossero queste forme di autoflagellazione, autocolpevolizzazione, come a dire: attenzione, non dobbiamo diventare così; tutto questo mi sembra importante.
Quand’è che Israele diventa lo “Stato degli ebrei”?
Da subito, purtroppo. Già nel ’48. In un primo momento non c’è questa percezione. La storiografia segnala che mancherebbero alcuni elementi nella Dichiarazione dell’indipendenza; sulla carta i diritti vengono concessi “come agli ebrei”, ma in realtà sappiamo che non è così perché, come ricordavo, fino al 1966, i palestinesi con cittadinanza israeliana sono sottoposti a uno status militare, che è molto diverso da uno status civile. I semi del fatto che Israele sia una democrazia solo per gli ebrei, una democrazia peraltro limitata e comunque una non-democrazia per quanto riguarda i territori occupati, sono già lì.
In fondo lo “Stato degli ebrei” è la formula di Herzl. Certamente all’epoca questa formula aveva un altro significato: si pensava a un posto dove gli ebrei potessero rifugiarsi; questa era l’idea di Herzl. Il significato cambia con il sionismo spirituale, quando si pensa a un posto in cui gli ebrei possano “rinascere”. In questa rinascita c’è già un elemento che in qualche modo assegna uno statuto maggioritario. Però parliamo di personaggi che comunque volevano vivere in pace con i palestinesi.
La legge del 2018, voluta da Netanyahu, sancisce la supremazia ebraica e fra l’altro declassa il bilinguismo ebraico e arabo del Paese.
Già Jeff Halper ci spiegava che della triade “territorio”, “Stato degli ebrei”, “democrazia”, Israele poteva sceglierne solo due e doveva scegliere.
I post sionisti dicono che l’unica strada è rinunciare alla formula “Stato degli ebrei”: non puoi avere uno stato dove vige un diritto per gli ebrei e uno per i non ebrei. Ovviamente in Israele non c’è l’apartheid: ci sono palestinesi israeliani nelle università, tra i primari ospedalieri, ovunque. Tuttavia, appena varchi il confine e vai nel West Bank, c’è praticamente uno stato di apartheid; il muro lo sancisce visibilmente; lo riconoscono anche gli israeliani.
Tempo fa ho letto su “Haaretz” un pezzo di un israeliano nato in Sudafrica, Benjamin Poground, che aveva combattuto contro l’apartheid, per anni si era ribellato a quella definizione per Israele e che infine diceva: “Mi devo ricredere”.
La soluzione dei due stati è ancora percorribile?
Non c’è altra strada. Evidentemente è molto difficile, quasi impossibile, ma c’è un'altra strada? O fai la pulizia etnica e ti sbarazzi di tutti i palestinesi e fai lo stato ebraico o fai due stati.
Io credo che qui il tema sia come superare questo trauma terribile e tornare almeno a prima del 7 ottobre, quando fra il mondo palestinese e il mondo ebraico dei rapporti c’erano. Dopo no. Se ti mettono un coltello alla gola o ti violentano la figlia, è chiaro che diventa tutto più difficile.
Poi c’è la questione dei coloni, che sta precipitando...
Anche lì, una parte dei coloni sono fanatici e vanno repressi; l’altra parte sono andati lì perché costa di meno, perché hanno delle facilitazioni. Basterebbe mandarli in un altro posto; si è parlato del Negev. È chiaro che ci sarà lo zoccolo duro che non vuole andarsene, però la maggior parte sono persone che vanno lì semplicemente per pagare di meno e fruire di agevolazioni.
Parallelamente a quella di Israele, nei decenni è cambiata anche l’identità della diaspora.
Il 48 è anche uno strappo con la diaspora. La diaspora è quella degli ebrei curvi, brutti, che piegano il capo. Se l’immagine del sabra è quella di Paul Newman, l’ebreo della diaspora è una sorta di Woody Allen. Con la nascita dello Stato assistiamo anche a un rifacimento dei corpi: vivere in campagna, a contatto con la terra, modifica il fisico.
Per la verità, la diaspora è molto filoisraeliana dopo il ’45. Penso all’Italia, dove tutti diventano sionisti, non nel senso che partono, ma politicamente. Molti pensano che la nascita dello Stato impedirà un’altra Shoah; considerazione abbastanza assurda. Mio padre diceva sempre: “A me non sembra che Israele sia così sicuro...”. Era l’epoca degli attentati terroristici degli anni Novanta, e lui: “Dicono che gli ebrei là siano più sicuri, sarà, ma a me non sembra!”.
Dall’altra parte, la diaspora in Italia non dà un grandissimo sviluppo all’aliyah, all’andata in Israele. Le grandi masse che ci vanno sono quelli che non hanno più un posto dove stare, come gli ebrei polacchi, almeno fino agli anni Sessanta, quando invece cominciano a scegliere le città occidentali.
Comunque molte di queste navi partono dall’Italia. Non solo: i portuali scendono in sciopero per aiutare le navi dei profughi ebrei a salpare per Eretz Israel; c’è insomma un forte appoggio della popolazione all’Aliyah Bet, all’immigrazione clandestina in quelli che sono ancora i territori del Mandato britannico; scendere in sciopero per un portuale voleva dire perdere la giornata di lavoro.
A Genova, La Spezia, Trieste, ma ovunque, anche in una piccola caletta a Scauri Minturno c’era un’organizzazione sionista che faceva partire delle barche, delle carrette dei mari per la Palestina. Credo che questo appoggio abbia aiutato a rimarginare almeno in parte le ferite del 38, poi se ne sono dimenticati tutti.
Riguardo al rapporto ebrei-Israele? Nel 2019, all’indomani di alcuni attentati in Francia, un ministro israeliano disse: “Tornate a casa”, e molti ebrei francesi gli risposero: “Siamo già a casa”.
Non era la prima volta. Circola questa idea di riprendersi gli ebrei della diaspora. Che poi non era così inizialmente. Gli ebrei che non erano sionisti non li volevano. Ripeto, Israele era il luogo dove rinascere, non dove trovare rifugio. Resta il fatto che i sopravvissuti della Shoah in Israele hanno figli e nipoti che perpetuano il trauma. Una parte di questa società ha un trauma non sanato alle sue origini.
Sia quella palestinese che quella israeliana sono identità con alle origini un trauma...
È il tema del libro di Bashir Bashir e Amos Goldberg. Ci sarà mai la possibilità di mettere insieme queste due identità? Stranamente c’erano più possibilità un secolo fa, all’inizio del Novecento, quando le élite palestinesi e ebraiche si frequentavano.
Tornando al ruolo della diaspora, almeno quella europea purtroppo non fa quasi nulla; quella americana, a New York e in California, è più attiva. Certo, gli episodi di antisemitismo registrati in alcune università americane rendono tutto più difficile. Leggevo di qualcuno che raccontava di essere stato a una manifestazione con un amico israeliano, molto di sinistra, che però al terzo slogan antisemita ha voluto andarsene, perché non reggeva. È molto difficile per un ebreo della diaspora portare avanti una battaglia e al contempo confrontarsi con questo odio. Spesso di tratta di piccole minoranze, ma altre volte il movimento per il boicottaggio è forte e c’è pure l’influenza dei palestinesi più radicalizzati, che sono presenti nelle università.
Io non credo che oggi in Occidente ci siano dei livelli di antisemitismo tali da creare un pericolo. Io non mi sento assolutamente in pericolo. Chi mi conosce sa che sono ebrea e siccome sono apparsa in televisione possono anche riconoscermi. Non per questo mi sento in pericolo. Però conosco molta gente che invece si sente insicura. Da alcuni mesi il Giornale dell’Unione delle comunità ebraiche mi arriva con un foglio bianco sopra per nascondere l’intestazione. Trovo che questo susciti paura e basta. Io sono contraria. Comunque quello che voglio dire è che io non credo che siamo ancora a un livello d’allarme. In Francia ci sono state azioni gravi, ma lì c’è anche la questione di questi giovani che si radicalizzano sull’Islam. C’è una questione post coloniale. In Italia di libici abbiamo solo gli ebrei, non abbiamo seconde e terze generazioni, sennò chissà, forse succederebbe come con gli algerini e i tunisini in Francia.
C’è poi un altro elemento di cui parlava recentemente la mia amica Manuela Consonni e cioè che è finita l’eccezionalità ebraica. Può essere che ritorni sul mito dell’invincibilità, se riescono a vincere. Io non credo. Ora c’è stata questa sofisticata operazione con le bombe e i walkie talkie, però... non so. Penso piuttosto che possano drammaticamente perdere quando parlo di suicidio.
Tu non ti riferisci a una sconfitta militare.
Mi riferisco a un suicidio morale. La mia preoccupazione è che si sia perduta l’anima di Israele. Nel momento in cui non riesci a provare pietà per i bambini di Gaza, nel momento in cui si spara su degli ostaggi in fuga disarmati che mostrano bandiera bianca...
Questa è proprio la cosa che i sionisti temevano all’inizio: di perdere l’anima occupando una terra non loro. L’avevano anche scritto e ora è successo. Mi è stato rimproverato di volere la fine di Israele. Ovviamente non è quello che penso. Credo e auspico che vivano in pace o almeno che ci sia una tregua con i vicini. Per ora vedo difficile un sollevamento interno; l’avevo sperato per tutto il 2023; penso che ci vorrebbe una pressione internazionale, degli stati, non soltanto dell’Onu, con tutte le difficoltà, ma anche degli Stati Uniti -speriamo!- di Kamala Harris.
Per me, però, il suicidio è anche lo scenario di un Israele fascista. Perché adesso la violenza si sta ripiegando verso l’interno: la repressione della polizia di Ben-Gvir contro i manifestanti di sinistra è fortissima; ora hanno proibito le manifestazioni con più di mille o duemila persone, hanno risolto il problema così.
Si sono giustificati con l’argomento che c’è una guerra in corso. Si può anche capire, io però vorrei ricordare che durante la guerra dell’82 in Israele scese in piazza mezzo milione di persone. Fino a che non è scoppiato il Libano, per gli ostaggi c’erano oltre settecentomila persone in piazza. Adesso non più di mille o duemila, questo vuol dire che non si manifesta più. Certo, c’è la guerra, ma questo è ciò che fanno i dittatori quando si sentono in difficoltà.
So che ci sono molte forze in Israele che, come la mia amica Manuela, quotidianamente, nelle piccole come nelle grandi cose, dentro le università, negli uffici, si stanno battendo affinché non ci siano discriminazioni verso i palestinesi, affinché l’odio non si ripercuota su di loro. Non dimentichiamo che i palestinesi cittadini israeliani sono il 22%.
I miei amici e conoscenti in Israele andavano tutti alle manifestazioni. Il problema è il rapporto con i palestinesi che è cambiato. Anche perché il governo Netanyahu ha subito fatto un tutt’uno dei palestinesi con Hamas. E perché i palestinesi stessi -anche questo va detto- non hanno avuto la forza di rappresentarsi come antagonisti ad Hamas. Se lo avessero fatto forse le cose sarebbero andate diversamente. Ma non ne hanno la forza. Sono umiliati, la loro base è piena di rabbia e non lo possono fare. Però era l’unica strada che avevano in quel momento. L’operazione di Hamas è stata davvero micidiale perché ha colpito proprio le aree dove c’erano gli ebrei di sinistra, quelli in buone relazioni con i palestinesi. Come a dire: “Ecco, avete visto?”.
(a cura di Barbara Bertoncin)
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