Partiamo dal 7 ottobre, un evento che ha colpito un paese già profondamente diviso...
Il 7 ottobre è stato un drastico spartiacque nella storia di Israele, e non solo di Israele; un trauma che ancora non è stato assolutamente rielaborato. Purtroppo l’esistenza di ostaggi ancora nelle mani di Hamas, e di cui forse la metà almeno sono morti -ma di cui gli israeliani vogliono riavere i corpi- implica che questo trauma continui a sussistere, che questa ferita non possa cominciare a rimarginarsi. Il ritorno degli ostaggi potrebbe forse contribuire a cambiare la situazione. Prima che venissero assassinati quei sei ostaggi che stavano per essere liberati, c’era la sensazione che potesse cambiare qualcosa, che potesse cadere Netanyahu, perché ci sono state delle manifestazioni grandissime. Invece anche questo è stato riassorbito da questo temibile e terribile governo.
Questo è un primo dato di fatto. Poi, certamente, il 7 ottobre ha cambiato le percezioni che hanno gli israeliani del rapporto con gli arabi, anche quelli di sinistra. Questa è una vicenda tragica, perché parliamo di persone che avevano dato tutte se stesse per lavorare insieme con i palestinesi, per cercare un accordo, che erano sinceramente democratiche, che capivano che l’occupazione non poteva sopravvivere, e che adesso si trovano molto sbilanciati e non hanno più alcun senso di sicurezza, pensano di poter essere sgozzate da un momento all’altro. In molte persone che conosco ho visto una sorta di passo indietro.
Come non bastasse, dopo l'attacco dei walkie-talkie, Netanyahu ha riguadagnato popolarità.
Dicevi di una sopravvenuta incapacità di provare empatia...
L’altra conseguenza drammatica, come si leggeva in un articolo di “Haaretz” uscito un paio di mesi fa, è che gli ebrei israeliani non riescono a provare empatia per i palestinesi di Gaza. Non tutti ovviamente, però anche nella sinistra israeliana non si riesce a provare empatia.
Si sta insomma scavando un baratro, che è poi quello che voleva Hamas. Non credo infatti che sia stata una mera barbarie, è stata un’azione preordinata per scatenare una paura e un orrore mai visti. Ecco anche il richiamo alla Shoah, che non è un richiamo storico ovviamente, e però di nuovo gli ebrei si sono resi conto di trovarsi di fronte a un orrore mai visto prima.
Aggiungo che quando il segretario dell'Onu ha detto quella frase sul fatto che gli attacchi del 7 ottobre non vengono dal nulla, a mio avviso voleva dire che dietro c’è un retroscena, c’è l’occupazione, ci sono grandissime tensioni, non voleva giustificarlo. Comunque, vero è che quasi immediatamente c’è stato un rovesciamento: ancor prima che gli israeliani entrassero a Gaza, da più parti il 7 ottobre è stato visto come una forma di resistenza legittima. Ho trovato veramente strana e difficilmente comprensibile la velocità con cui l’opinione pubblica occidentale ha rimosso, se non giustificato, quelle azioni facendole rientrare quasi in una normalità. Invece questo attacco terroristico, perché di questo si è trattato, è una novità proprio per l’orrore e il baratro che ha creato tra i palestinesi e gli ebrei in Israele.
In questi mesi, da un lato, si è tornati a parlare del 48 come di un progetto coloniale e dall’altra a equiparare antisionismo e antisemitismo. Nel libro ripercorri la storia di Israele cercando di fare chiarezza.
Le domande cruciali sono: il sionismo è un colonialismo? Si può parlare di Apartheid? E infine: l’antisionismo è antisemitismo? A partire da queste domande, ho cercato di costruire una storia del sionismo, facendo riferimento soprattutto alla storiografia israeliana, quella tradotta in lingua inglese, che è molto più avanzata di quella europea e offre informazioni e un taglio critico che cambiano moltissimo le carte in tavola. Non penso solo al lavoro dei nuovi storici, qui c’è qualche cosa di più. Per dire, i dati raccolti da Be ...[continua]
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