Ho pensato molto a quale contributo poteva dare la storia a un percorso formativo complicato e delicato come quello da offrire a persone che vanno in situazioni difficili, di guerre civili e di guerre contro i civili; mi è sembrato possibile presentare alcune riflessioni sulle forme di reazione sociale all’occupazione nazista durante la seconda guerra mondiale.
La seconda guerra mondiale è la prima che si può definire guerra contro i civili, per i bombardamenti a tappeto sulle città, per le violenze e le rappresaglie di massa, e prima ancora per le deportazioni e per i giganteschi spostamenti di popolazioni. Nel Terzo Reich ci sono la deportazione degli ebrei e degli zingari, le deportazioni per motivi politici, e i grandi spostamenti di popolazioni destinate al lavoro coatto nell’economia di guerra. In Urss prima e durante la guerra, gruppi nazionali non russi come ceceni, tatari, ingusci, turchi, giudicati di “dubbia lealtà” o accusati in massa di aver collaborato con i nazisti, sono deportati quasi per intero, sia per “russificare” le loro terre sia per avere a disposizione forza-lavoro semicoatta per l’industria di guerra.
C’è un altro elemento che mi incoraggia a parlare della seconda guerra mondiale e riguarda il Kosovo, dove la resistenza non violenta condotta dalla Lega democratica di Rugova è durata parecchi anni, senza che mai trovasse spazio sui media e considerazione adeguata sul piano internazionale. Ci si è accorti del Kosovo solo quando è iniziata la lotta armata, e a quel punto Rugova è stato emarginato.
Se si fossero conosciute le tante forme di resistenza civile o non armata (le due parole grosso modo si equivalgono) che ci sono state nell’Europa sotto dominio nazista, forse si sarebbe prestata più attenzione all’esperienza kosovara, unica, fra l’altro, nella situazione balcanica. Invece non c’era conoscenza, non c’era un orizzonte simbolico che facesse capire come fosse importante. Qui anche la storiografia ha i suoi torti. Se si fosse creata una memoria condivisa capace di valorizzare quella resistenza, forse anche in Kosovo si sarebbe potuto fare qualcosa prima che la situazione degenerasse. Tanto più che ci sono delle parentele fra alcune pratiche adottate nei paesi occupati dal Terzo Reich e altre messe in atto dalla società civile per esempio in Kosovo, in Afghanistan e anche in Sud Tirolo nel periodo fascista.
Intendo la società come luogo dell’associarsi delle persone in tante forme, che esprimono e producono libertà, ma contemplano anche ambivalenze e conflitti. Le identità collettive, comprese quelle etniche, che dall’esterno sembrano un tutt’uno, sono segnate da conflitti interni che, per fortuna, portano a cambiamenti di idee, di mentalità. Società quindi come insieme di attori collettivi, di complesse strutture di coesione. Schematicamente, se ne possono indicare due tipi, uno formalizzato, l’altro informale. Il primo sono le associazioni di persone che si danno un nome, uno statuto e si riuniscono intorno a una ragione sociale che può essere la più varia, dalla cultura all’assistenza, allo sport e quant’altro. Per esempio la Germania pre-nazista era un pullulare di organizzazioni di base di questo tipo, dalle corali alle filarmoniche, alle bocciofile, alle società di storia locale, alle associazioni di mestiere. La seconda forma, molto più fluida, è quella dei reticoli familiari, amicali, parentali, di quartiere, di vicinato.
Tutte e due queste strutture della coesione sociale hanno in comune un radicamento locale forte e la presenza di un solo obiettivo, o di obiettivi circoscritti, a differenza dei partiti che chiedono un’adesione a una linea complessiva. Tutte e due hanno una funzione particolarmente importante durante le emergenze e le guerre, in generale quando lo stato vive una crisi; e in queste circostanze si può cogliere con più chiarezza quel loro carattere ambivalente, progressivo sotto certi aspetti, regressivo per altri.
In ogni caso sono forme vitali, che hanno contato e contano nel farsi della storia. Non è vero che la storia va avanti secondo processi economici o decisioni a livello di alta politica. Reti familiari e di tipo etnico hanno avuto un grande peso nel determinare i tempi del mutamento sociale: in Usa nella prima fase del taylorismo, per esempio, spesso le fabbriche assumevano non secondo i criteri attitudinali, ma tenendo conto dei legami “etnici” degli operai immigrati.
Quanto fossero importanti le strutture della coesione soci ...[continua]

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