All’inizio di maggio 2025, il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato il piano “Carri di Gedeone”, con l’obiettivo di “conquistare” la Striscia di Gaza, “stabilirvisi”, eliminare Hamas, liberare gli ostaggi e trasferire la popolazione palestinese in una piccola area nella parte meridionale dell’enclave. Tra le altre misure, il piano prevede un programma di distribuzione di aiuti umanitari, affidato alla Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), un’organizzazione privata registrata nel Delaware poche settimane dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca. La Ghf, che nelle intenzioni del governo israeliano sostituisce le agenzie delle Nazioni Unite e le ong internazionali ha iniziato il suo intervento alla fine di maggio. Le notizie sul nuovo partner “umanitario” sono scarse. Non si sa quale governo abbia fornito i fondi per avviare le attività della Ghf nel primo mese, ma sappiamo che a giugno gli Stati Uniti hanno destinato 30 milioni di dollari  alla fondazione e che il suo presidente è il reverendo Johnnie Moore, ex consigliere della campagna per la rielezione di Donald Trump e uno dei leader dei cristiani evangelici che, negli Stati Uniti, costituiscono il movimento più influente e numeroso di sostenitori di Israele. 
Il blocco alimentare e i suoi effetti
Insieme  agli effetti devastanti sulla sicurezza alimentare e nutrizionale, la conseguenza principale del blocco alimentare imposto da Israele è stato un aumento esplosivo dei prezzi degli alimenti di base nella Striscia. All’inizio dell’anno, le derrate alimentari più comuni avevano un valore stabile e accessibile. A metà luglio, a Deir al Balah, il prezzo di un sacco da un chilo di farina costava tra oltre 150 shekel (circa 38 euro), il 7.800% più di quanto costasse prima che Israele arrestasse il flusso di aiuti umanitari [1]. Un chilo di zucchero che, prima del cessate-il-fuoco di gennaio 2025 costava 3 euro, a giugno ne costava più di 60 [2].
Quindi, tra la tarda primavera e l’inizio dell’estate, dopo quasi tre mesi di blocco, il cibo nella striscia è diventato un bene scarso e costosissimo, al di fuori dalla portata della stragrande maggioranza della popolazione. E quando un semplice sacco di farina diventa una merce preziosa, aumenta il numero di persone disposte a usare mezzi violenti per impadronirsene, inclusi delinquenti comuni, bande criminali, miliziani di Hamas. 
Il blocco ha reso i pochi luoghi in cui il cibo è ancora disponibile (convogli umanitari, depositi) obiettivi ad alto rischio. Non a caso si sono verificati saccheggi, furti e assalti. Tutto prevedibile e, plausibilmente previsto, dal governo di Israele. Nulla di tutto ciò sarebbe successo se a Gaza il pane e le patate non fossero diventati beni di lusso. Nulla di ciò sarebbe successo se il governo di Netanyahu non avesse imposto il blocco.
Per giustificare quest’ultimo, Israele aveva accusato Hamas di appropriarsi delle forniture umanitarie al fine di sostenere le proprie azioni terroristiche. Premesso che Hamas può monetizzare scorte alimentari  solo se queste sono costose, a sconfessare l’ accusa israeliana è arrivato a fine luglio uno studio dell’United States Agency for International Development (UsAid), l’agenzia statunitense che si occupa di aiuti umanitari e allo sviluppo.
L’analisi dell’UsAid non ha evidenziato prove di furti sistematici degli aiuti umanitari finanziati dagli Stati Uniti da parte Hamas, smentendo quindi la motivazione addotta da Israele per sospendere l’ingresso di cibo e sostenere l’intervento della Ghf.


Nelle undici settimane precedenti, Israele aveva proibito l’ingresso nella Striscia di qualsiasi forma di aiuti umanitari riducendo -non per la prima volta- l’intera popolazione palestinese alla fame. 
Secondo l’Integrated Food Security Phase Classification (Ipc), lo strumento utilizzato da tutte le organizzazioni umanitarie per descrivere la natura e la gravità delle crisi alimentari, a maggio la maggioranza della popolazione palestinese di Gaza si trovava in una condizione d’insicurezza alimentare classificata tra 4 e 5, dove quest’ultima (Ipc5) denota uno stato di carestia e crisi umanitaria catastrofica (Fig. 1). 
In pratica secondo l’Ipc, in aprile oltre 900.000 di gazawi (il 44% della popolazione a Gaza) erano in una situazione di insicurezza alimentare acuta, prossima alla soglia di fame, mentre quasi 250.000 persone (il 12%) si trovavano in una situazione di “catastrofe”, ovvero appena al di sotto di tale soglia.
Durante la tregua di sei settimane tra gennaio e marzo, come del resto nei sedici mesi precedenti a partire dall’ottobre 2023, l’assistenza umanitaria era fornita da agenzie dell’Onu (Unicef, Programma alimentare mondiale) e ong internazionali (ad esempio, Anera, World Kitchen Corps, Norwegian Refugee Council). A Gaza, come nelle altre situazioni di crisi umanitarie in cui operano, tutte le agenzie adottavano regole consolidate da anni. 
Per cominciare i punti di distribuzione erano situati in luoghi facilmente accessibili ai destinatari dell’assistenza. Nella Striscia, il numero dei punti di distribuzione (circa 400) e la frequenza delle distribuzioni erano proporzionati al numero di beneficiari da assistere onde evitare assembramenti troppo grandi e difficili da gestire, e non costringere i palestinesi a camminare lungo grandi distanze dai loro rifugi di fortuna. Tutti i destinatari di aiuti umanitari venivano identificati e registrati per correlare le forme e la qualità dell’assistenza al grado di difficoltà della popolazione dando priorità alle persone più vulnerabili incluse gli anziani, i malati, i disabili, le donne incinte o che allattano e i bambini sotto ai cinque anni. 
Nulla di tutto questo sta succedendo a   Gaza dalla fine di maggio. 
L’esercito israeliano ha imposto, per la distribuzione degli aiuti, la sostituzione della Ghf alla precedente gestione dell’Onu e delle ong, accusate di collusione con Hamas.
Sotto il controllo della Ghf, i siti sono passati da 400 a quattro, tre dei quali si trovano a ovest di Rafah, nell’estremo sud della striscia, e uno solo nella parte centrale non lontano dal corridoio di Netzarim. La Ghf non ha pianificato alcun centro di distribuzione nella parte settentrionale di Gaza dove si trovano centinaia di migliaia di palestinesi che in tal modo restano tagliati fuori dagli aiuti. La scelta logistica di Ghf costringe quindi una parte della popolazione a percorrere lunghe distanze per accedere agli aiuti e ne esclude del tutto la parte che per diversi motivi non riesce a raggiungere i punti di distribuzione. 
Inoltre, fino ad ora, la Ghf non ha organizzato alcun sistema di identificazione e registrazione dei beneficiari, con la conseguenza che l’organizzazione non esercita alcun controllo per assicurare che tutta la popolazione bisognosa di assistenza sia coperta adeguatamente, col rischio che qualcuno riceva più aiuti di quanto gli sia dovuto, a scapito di qualcun altro. 
Dal punto di vista sia pratico che nutrizionale, i pacchi alimentari distribuiti dalla Ghf rivelano l’incompetenza e l’incuria di chi li ha concepiti: i pacchi alimentari della Ghf contengono principalmente alimenti che richiedono cottura come pasta, riso e bulgur, mentre a Gaza la scarsità di acqua potabile e di combustibile ne rende difficile la preparazione. Inoltre, i pacchi sono privi di alimenti freschi e di cibo specifico per neonati e mancano quindi di vitamine e dei micronutrienti necessari per evitare forme croniche o acute di malnutrizione. Fino a marzo agenzie dell’Onu e ong distribuivano pacchi alimentari, cercando di ottenere un giusto equilibrio tra macronutrienti (come grassi e proteine) e micronutrienti (come vitamina A e ferro).
Per di più, ogni razione della Ghf è in media di circa 1.750 calorie/giorno inferiore alla razione umanitaria standard di 2.100 calorie per persona al giorno considerata quella necessaria a nutrire un individuo adulto. Insomma, il regime alimentare ideato per i gazawi sembra fatto apposta per ridurli all’inedia. 
Ma ciò che soprattutto distingue il sistema di aiuti della Ghf da quello esistente fino a pochi mesi fa è che riceverli è diventato una lotteria mortale, in cui coloro che arrivano nei pressi dei siti di distribuzione rischiano la vita e spesso la perdono. Ad ogni distribuzione l’esercito israeliano e i mercenari americani impiegati dalla Ghf sparano sulle folle di palestinesi radunatesi in attesa di ricevere il cibo. Il risultato è che alla fine di luglio quasi mille palestinesi erano stati uccisi dai soldati israeliani. Secondo la versione ufficiale dell’esercito israeliano i soldati sparano colpi di avvertimento contro “individui sospetti” che si avvicinano troppo alle loro posizioni.  In realtà le testimonianze, sia dei palestinesi sia degli operatori umanitari presenti sul campo e corroborate da esperti di armi consultati dalla Cnn, sostengono che i beneficiari dell’assistenza non sono in preda ad un impulso suicida, ma che Tsahal fa un uso molto disinvolto di cecchini, droni e carri armati per “controllare” la folla. Il riscontro definitivo riguardo alle responsabilità israeliane viene dai soldati stessi. Militari israeliani intervistati dai giornalisti di “Haaretz” e del “Wall Street Journal” (questi ultimi embedded con l’Idf a luglio) hanno confermato di aver ricevuto dai loro comandanti l’ordine di sparare ai civili palestinesi anche quando è chiaro che questi ultimi non costituiscono una minaccia [3]. Un palestinese sta oltrepassando una linea non segnalata al di là della quale non si può passare? I soldati israeliani sparano perché le regole d’ingaggio lo consentono.
Che cosa spiega questa ennesima manifestazione di incompetenza mista a sadismo dopo 22 mesi di stragi? Su questo da tempo non ci sono più dubbi: basta ascoltare e leggere le dichiarazioni rilasciate dai membri del gabinetto di guerra negli ultimi mesi. A marzo il ministro delle finanze Bezalel Smotrich affermava che il governo era pronto a creare un’agenzia per l’immigrazione da Gaza per realizzare il piano di Trump che mira a trasformare i 40 chilometri di costa di Gaza in un complesso turistico e a deportare quel che resta dei 2,2 milioni di residenti.
Ad aprile il ministro degli esteri Gideon Sa’ar ha confermato i propositi di deportazione del governo. Nel corso di una conferenza a Gerusalemme, Sa’ar ha detto che incoraggiare l’emigrazione “volontaria” da Gaza è “la cosa più morale e umana da fare” [4] sottolineando che l’iniziativa è in linea con la proposta di pulizia etnica fatta da Trump a febbraio.
Ancora più chiaro è stato il primo ministro Netanyahu che a maggio, durante una riunione della Commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset, ha dichiarato: “Stiamo demolendo sempre più case; [i palestinesi] non hanno un posto dove tornare…”. L’unica conseguenza naturale sarà il desiderio tra i cittadini di Gaza di emigrare. Il nostro problema principale è trovare Paesi disposti ad accoglierli [5]”. Durante la riunione Netanyahu ha detto esplicitamente ciò che fino ad allora aveva lasciato dire a Smotrich, cioè che i cittadini di Gaza potranno ricevere gli aiuti purché non tornino nei luoghi da cui arrivano. In altre parole, uno degli obiettivi dei centri di distribuzione gestiti dalla Ghf è attrarre la popolazione di Gaza nel sud dell’enclave per indurre a uno spostamento permanente dal nord e dal centro verso il confine con l’Egitto e, in una seconda fase, verso gli eventuali paesi disposti ad accoglierli. Già a metà di giugno i piani del governo israeliano erano a buon punto: secondo l’Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (Ocha), l’82% del territorio di Gaza è un’area vietata ai palestinesi o sotto ordini di sfollamento.
Sempre a maggio, in un video postato su X, Netanyahu ha dichiarato che sebbene Israele stia dispiegando “forze massicce per prendere il controllo di tutta la Striscia di Gaza... non possiamo arrivare alla carestia, per ragioni pratiche e diplomatiche”, aggiungendo che “i più stretti amici di Israele nel mondo”, compresi senatori statunitensi, gli hanno detto che il loro sostegno [per Israele] è incrollabile, ma che non possono “sopportare immagini di fame di massa” [6]. 
In questa dichiarazione ci sono due elementi da porre in evidenza: per la prima volta dall’ottobre 2023, un politico israeliano, e non uno qualsiasi, riconosce pubblicamente l’esistenza della fame nella striscia. In secondo luogo, Netanyahu ammette candidamente di consentire la ripresa dell’assistenza alimentare a Gaza solo per non contrariare certi politici americani amici suoi e non mettere in tal modo a rischio il sostegno militare Usa alla campagna bellica israeliana. In sostanza, il dilemma affamare o non affamare un popolo viene trattato come una questione di pubbliche relazioni.  
Del resto, da ventidue mesi a questa parte, i palestinesi sono sempre più alla mercé degli aiuti umanitari visto lo stato di devastazione in cui versano i principali mezzi di sostentamento della popolazione: l’agricoltura e la pesca. Ad aprile di quest’anno, la Fao stimava che l’80% della superficie totale coltivata della Striscia di Gaza era stata distrutta o danneggiata. Allo stesso modo in seguito alle ostilità, dall’ottobre 2023, fino ad oggi, il settore della pesca ha subito un crollo catastrofico, operando solo al 7% della sua capacità produttiva precedente all’escalation. Gaza che non era autosufficiente in produzione alimentare neanche prima del 7 ottobre, non potrà per molto tempo produrre cibo sufficiente per sfamare neanche una piccola parte della popolazione. Quindi, anche se l’esercito israeliano si ritirasse da una parte della striscia, l’emigrazione forzata -nota nel linguaggio del diritto internazionale come pulizia etnica- potrebbe restare l’unica opzione disponibile ai gazawi. 
La messa in scena distopica della Ghf avrebbe potuto essere evitata. A metà maggio le Nazioni Unite avevano presentato a Israele un piano completo che rispondeva alle preoccupazioni di sicurezza degli israeliani: osservatori Onu a ogni valico di entrata in Gaza e ai checkpoint, merci etichettate con codice Qr, camion tracciati tramite gps su percorsi pre-autorizzati dall’esercito israeliano e distribuzione di cibo in quattrocento siti. 
Prima di essere presentato ufficialmente, il piano dell’Onu era stato discusso con l’unità di coordinamento per gli affari civili dell’esercito israeliano, che non ha dato il suo consenso.
Del resto, perché il governo israeliano avrebbe dovuto accettare un sistema di aiuti più efficiente che non prevede l’uccisione quotidiana di disperati in attesa di cibo? In questa primavera, il governo di Netanyahu ha realizzato l’auspicio di Smotrich che nel 2024 aveva confessato a malincuore: “Nessuno al mondo ci permetterebbe di far morire di fame e di sete due milioni di cittadini, anche se fosse giusto e morale” [7]. Smotrich, però, in quella circostanza si sbagliava. Il “mondo” magari deplora a mezza bocca i metodi dell’esercito israeliano, ma in sostanza si guarda bene dall’intralciare uno sterminio eseguito mediante fame, sete e pallottole. 

Bibliografia selezionata
[1] Spitzer Y., Comunicazione personale, 24 luglio 2025. Yannay Spitzer è professore di economia presso l’università ebraica di Gerusalemme.
[2] World Food Programme, Market Monitor - Gaza, Wfp Palestine Food Security Analysis, giugno 2025.
[3] Hasson N., Kubovich Y. e Peleg B., “‘It’s a Killing Field’: Idf Soldiers Ordered to Shoot Deliberately at Unarmed Gazans Waiting for Humanitarian Aid”, “Haaretz”, 27 giugno 2025.  
[4] Jewish News Syndicate, “Sa’ar: Encouraging Gaza emigration ‘most moral and humane thing”, 27 aprile 2025.
[5] Bloch A., “Limor Son Har Melech ha sbalordito la commissione della Knesset”, “Maariv”, 11 maggio 2025. 
[6] Netanyahu, B., “Un aggiornamento importante da me per voi”, X, 19 maggio 2025. 
[7] Karni D., “Israeli minister says it may be ‘moral’ to starve 2 million Gazans, but ‘no one in the world would let us’”, Cnn, 6 agosto 2024.