Interrompo qui il conteggio, perché mi rendo conto che non riesco a contare tutti. Sarajlic direbbe: "Erano in 5.000 e 28". Mentre Federico Bugno, un giornalista di Roma, ha chiuso la presentazione del libro di Sofri a Pisa con una frase memorabile: "Oggi è successa una cosa incredibile: un’intera città è entrata in carcere a visitare un detenuto".
In carcere, nonostante gli occhi accuratamente preparati per l’incontro, Sofri è riuscito a far piangere la maggioranza, ma io sono rimasto al di sopra delle lacrime, come un cipresso sopra l’alluvione. Nel momento in cui lo salutavamo, prima di uscire, anch’io, pur non essendo facile alle lacrime, ero sull’orlo del pianto: ecco, ho pensato, noi ora usciamo fuori, nella vita, e Adriano rimane in galera, proprio come durante la guerra Adriano e molti altri venivano a Sarajevo a passare e a vivere veramente con noi un tempo più o meno lungo e poi andavano fuori, nel mondo normale, mentre noi si rimaneva nel campo di concentramento. La strada più breve in direzione dell’altro passa attraverso la tua anima. Cosa che anche Sofri certamente sa benissimo. Ha continuato a dipingere la sua situazione carceraria col linguaggio di guerra di Sarajevo, che lui conosce fin nei particolari. "Qui sto bene -ha detto- c’è gas, luce e acqua, e anche gli aiuti umanitari arrivano regolarmente". Abbiamo parlato prevalentemente con queste espressioni, con le quali si paragonano due esperienze simili. "Semplicemente aspetto la mia deblokada (rottura dell’assedio)" ha detto, ma io ho avvertito che non ha usato quella formula solo per rendere il concetto immediatamente comprensibile, ma che ha usato quel linguaggio per superare spiritualmente la propria posizione, per innalzarsi al di sopra di essa, per guardarla dall’alto con occhio ironico. Perché questo modo di parlare in effetti è un po’ ufficiale; lui lo inseriva come una barriera tra se stesso e la propria esperienza più personale, la teneva a distanza, la ripuliva del privato, per poterla vincere spiritualmente, addirittura per giocarci un po’.
No, non sta male, il carcere è attesa, e a Sarajevo assieme a noi, ha imparato ad aspettare. Sofri sa come le nostre vite, al tempo dell’assedio, fossero ripartite in cento tipi di attesa. Attendere in fila per il pane. Per gli aiuti umanitari. Per l’acqua. Attendere che cessino le granate. O che ricomincino. Attendere che arrivi la luce. Oppure l’acqua del rubinetto. Attendere l’aiuto militare della Nato.
Nella passata guerra abbiamo potuto vivere il più profondo, subdolo e infernale senso dell’esistenza ridotta ad att ...[continua]
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