Muhameddin Kullashi, albanese, è stato professore di Filosofia all’Università di Pristina, capitale del Kosovo, fino al 1992, anno in cui, a seguito della repressione condotta dai serbi di Belgrado nei confronti della popolazione albanese, è stato cacciato dal suo incarico e, in seguito a minacce, costretto a rifugiarsi in Francia, dove attualmente vive e lavora, insegnando all’ottava università di Parigi.

Il Kosovo è una delle regioni ad altissimo rischio della ex-Jugoslavia, può descriverci come si è giunti all’attuale situazione?
Dopo la dissoluzione del partito unico, la Lega dei comunisti, nel 1989 si formarono velocemente molti partiti politici in vista delle elezioni del ’90 e del ’91: il partito socialdemocratico, il partito democristiano, il partito repubblicano. Insieme ai partiti apparvero anche i sindacati liberi, che, ben presto, divennero, a seguito di massicci licenziamenti, sindacati di disoccupati; apparvero anche molte associazioni umanitarie, tra cui il Consiglio dei Diritti dell’Uomo. A fronte di tutto questo restavano, intatti, l’esercito, la polizia, l’apparato repressivo della Serbia.
Tutto precipita il 5 luglio 1990, quando il presidente Milosevic, mediante un decreto del parlamento di Serbia, impone la soppressione dell’autonomia del Kosovo e di tutte le sue istituzioni. Si deve sapere che il Kosovo era un’unità federale eguale alle altre unità federali della ex-Jugoslavia: non possedeva il titolo formale di repubblica a causa di un compromesso che la vecchia dirigenza jugoslava aveva stretto con i dirigenti serbi, ma aveva tutti gli organi istituzionali di una repubblica: un presidente, un parlamento, un governo, una costituzione, un territorio definito dalla costituzione jugoslava; aveva, inoltre, al pari delle altre repubbliche, il diritto di veto, grazie al quale nessuna legge federale poteva passare senza il consenso di tutte le otto unità federali.
La soppressione dell’autonomia del Kosovo non restò un fatto giuridico, fu il segnale che diede inizio a un’epurazione degli albanesi dalle istituzioni del Kosovo. Una cosa simile si era già verificata dopo la crisi del 1980: insegnanti, medici, giornalisti, giudici albanesi vennero licenziati; si trattava, però, di licenziamenti politici selettivi, che colpivano persone sospettate di aver appoggiato le manifestazioni del 1980. Nel ’90, invece, l’epurazione nelle istituzioni diventa massiccia, puramente "etnica". In due mesi, gli ospedali della regione cacciarono quasi tutti i medici e gli infermieri albanesi: il 90% dei medici albanesi si ritrovò senza lavoro. All’università, i professori albanesi vennero licenziati in massa e 30 mila studenti furono espulsi. La purga colpì anche la televisione, che fin dalla sua nascita utilizzava tre lingue: serbo-croato, albanese e turco, e c’era anche una trasmissione in lingua rom. Anche i giudici vennero epurati, cosicché, alla fine, pochissimi albanesi rimasero nelle istituzioni, quelli di cui avevano bisogno e che non potevano rimpiazzare con personale serbo: ingegneri, medici specialisti.
Tutto ciò mostra chiaramente che il regime di Belgrado puntava a rendere impossibile la vita alla maggioranza della popolazione albanese, anche se per questo doveva distruggere la ricchezza della regione. Infatti, l’epurazione investì anche i luoghi di produzione: ci furono licenziamenti massicci in molte miniere che producevano profitto, 12 mila minatori vennero licenziati e diverse miniere furoro chiuse.
Lo scopo di tutte queste misure discriminatorie non era tanto l’istituzione di un regime di apartheid, quanto obbligare gli albanesi a partire. Lo scopo era la pulizia etnica.
In questo contesto di repressione poliziesca sistematica e quotidiana, dopo molte discussioni e dibattiti, fra gli albanesi ha prevalso l’idea che la risposta pacifica fosse la migliore, perché, secondo l’opinione maggioritaria, la popolazione albanese non ha molte possibilità di opporre una resistenza armata all’esercito serbo, che dispone di grandi armate e di un potente apparato poliziesco. Comunque, il dibattito è stato molto serrato, perché alcuni ritenevano che la scelta non-violenta, non costituendo alcun serio ostacolo al governo di Belgrado, finisse per rafforzare il regime di Milosevic.
Si può fare un primo bilancio di questi anni di repressione e di resistenza?
Circa 300-400 mila albanesi hanno lasciato il Kosovo -soprattutto giovani, che volevano evitare il servizio militare, e persone colpite direttamente dalla repre ...[continua]

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