Quando lessi per la prima volta la sua analisi dei campi nazisti mi capitò di scrivere alcune osservazioni, venendomi del tutto spontaneo di intitolarle “E io sono scampato a raccontarvelo”, il versetto di Giobbe che sigla l’epilogo del Moby Dick.
Non sono esperta della Bibbia; nel mio ricordo Ismaele era il figlio della schiava scacciato nel deserto e salvato dall’angelo che rivela a sua madre la fonte dell’acqua. Mi sembrava ovvio che a questo si riferisse il nome del protagonista del romanzo, salvato dal deserto del mare per raccontare la lotta con la Balena.
Più di vent’anni dopo, dall’ultima intervista concessa da Bettelheim qualche settimana prima di morire, appresi che stava leggendo Moby Dick, e ne parlava così: “Lo scrittore Melville scelse quel nome perché tutto il mondo sapeva chi è stato Ismaele nel racconto biblico: colui sul quale tutti gli altri alzano la mano, e che alza la mano contro tutti gli altri. Un uomo che sta ai margini, in conflitto con se stesso e con gli altri. Proprio come in un certo senso sono io. Ci sono cose alle quali non potrò mai rassegnarmi”.
Rimasi molto colpita e andai a cercare nella Bibbia questo secondo Ismaele che non sapevo. In effetti ci sono due racconti successivi su Ismaele: nel primo è colui su cui tutti possono alzare la mano, quello in cui Bettelheim identificava se stesso; nel secondo è colui che viene salvato dalla morte nel deserto, quello in cui mi era venuto immediato di identificare Bettelheim.
L’Ismaele cui si sentiva così prossimo il vecchio ebreo scampato al Male è presentato dal testo biblico come il capostipite del popolo arabo, i nomadi del deserto indipendenti come l’asino selvatico.
Forse sta qui il nucleo di questa identificazione. se il suo tono emotivo risente della depressione che colpì Bettelheim dopo la morte della moglie, ciò non offusca il suo contenuto di verità. come il nomade è inviso ai sedentari perché la sua libertà è lo specchio del loro auto-imprigionamento, così tutti noi difficilmente sappiamo perdonare chi ci costringe a guardarci allo specchio. (Perché gli Ateniesi si vollero liberare a tutti i costi dell’importuno concittadino che andava per le strade costringendo ciascuno a esaminare se stesso; e anche lui non si sapeva rassegnare?)
Bruno Bettelheim non ha inventato teorie nuove, è rimasto sempre un affezionato discepolo di Freud: non del fondatore di una Internazionale psicoanalitica di stampo leninista, bensì del vecchio saggio che alla paziente impaziente di guarire rispondeva: “Cara signora, riteniamoci fortunati se potremo trasformare la sua disperazione in ordinaria infelicità”. E che ascriveva il suo mestiere, insieme a quelli di educare e di governare, tra le professioni impossibili, il cui insuccesso cioè è garantito a priori.
Il militante parte dalle speranze, proprie e altrui, facendosi carico della loro realizzazione. Il saggio parte dalla disperazione, per tentare di trasformarla in speranza.
Questo ha fatto Bettelheim per cinquanta anni, dopo essere uscito da Buchenwald e Dachau.
Avere un simile punto di partenza comporta, tra molte altre, due conseguenze. La prima è di non poter usare le limitazioni di tempo. Se integrare il lager nel proprio io è compito interminabile, analogamente non si può porre dei termini alla riparazione dei danni psichici che gli esseri umani si procurano vicendevolmente con indefessa energia. Se un bambino è vissuto di paura, ostilità, disprezzo o abbandono per 12 anni, è ragionevole supporre (dice Bettelheim) che ne occorrano almeno altrettanti per costruire insieme a lui una speranza di vita decente. Ma una idea così semplice è incompatibile con una società dove il tempo è denaro, che ha inglobato in questo principio onnivoro anche la cura delle anime, nonostante il suo assunto che buona parte della psiche umana risulta inalterabile allo scorrere del tempo.
La seconda conseguenza è la disponibilità a vivere senza risparmio secondo il principio “nihil humani a me alienum puto”: chi ha vissuto la degradazione e l’annichilimento può riconoscere nell’essere più degradato, nelle azioni più insensate e distruttive qualcosa di simile a sè. Questo riconoscimento empatico, che è l’unica base della terapie d’anime, è l’instancabile insegnamento di Bettelheim. “Che cosa farei io al suo pos ...[continua]
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