L’albero a cui tendevi / La pargoletta mano, / Il verde melograno / Da’ bei vermigli fior, // Nel muto orto solingo / Rinverdì tutto or ora / E giugno lo ristora / Di luce e di calor. // Tu fior de la mia pianta / Percossa e inaridita, / Tu de l’inutil vita / Estremo unico fior, // Sei ne la terra fredda, / Sei ne la terra negra; / Né il sol più ti rallegra / Né ti risveglia amor.
Fermate la vostra attenzione su “la pargoletta mano”. E’ un modo felice, sintetico, in coerenza con un testo delicato e semplice, per indicare la mano bambina, e cioè la mano di bambino. E’ l’unica espressione in tutta la poesia che, indirettamente, alluda al piccino che non c’è più. Ma questo felice binomio di aggettivo e sostantivo, così essenziale al testo, che pare non altrimenti pensabile, non è così insospettabile come può apparire. Come vedrete, non l’ha inventato il Carducci; faceva parte del suo deposito culturale: l’aveva in testa, da grande studioso qual era di poeti italiani e da professore -anche in questo grande- e gli è emerso bell’e pronto e appropriato durante l’elaborazione della poesia, così come, per intenderci, a un adolescente dei nostri tempi scrivendo una lettera d’amore o scrivendo sul diario i suoi pensieri e cercando di dare forma alle proprie esperienze inevitabilmente gli vengono spontanei, o anche richiama consapevolmente, espressioni parole immagini dei cantautori più amati (ascoltati e riascoltati infinite volte).
La cosa per i letterati di una volta era ancor più determinata, data la consuetudine sistematica (a memoria; frasi; riassunti; imitazioni...), fin da tenera età, senza disturbo di altre emissioni, coi testi canonici selezionati nell’eredità del passato, dentro un assetto culturale unitario e più stabile. Per cui la personalità nella formazione si strutturava -come pensiero, sensibilità, immaginazione, gusto, strumenti espressivi...- assorbendo, facendo diventare carne della propria carne, quelle parole, quei testi. Come avviene d’altra parte più in generale per tutti col crescere dentro e mediante la propria lingua materna. In quel caso si tratta di una “lingua” particolare.
Poi, c’era anche, in varia misura e modo secondo la stagione culturale, l’uso voluto, cercato, consapevole, di ciò che la tradizione offriva di materiali già elaborati, il cui riutilizzo nobilitava e amplificava la risonanza, moltiplicava gli echi del testo nuovo. E la novità e l’originalità nasceva di solito a partire dall’assimilazione e dominio del patrimonio dell’arte (non solo quella poetica) entro la cui storia ci s’inseriva.
Pensate che le poesie del Leopardi più nuove, più semplici, che parlano con più immediatezza alla condizione umana, per esempio Il sabato del villaggio, sono un centone di pezzetti di altri poeti, dai più grandi ai più modesti ai più peregrini, che però anche solo per un’immagine avevano lasciato un segno nella memoria del poeta. Naturalmente c’è anche il prodigio vero e proprio della memoria, come nel caso di un poeta modernissimo, Montale, in cui si trovano debiti nelle direzioni più impensate. Del resto, pare proprio che la memoria, come pensavano i Greci e in genere i popoli “primitivi”, sia la dote stupefacente dei poeti (e artisti in generale).
Ma -direte- dove va a parare questa tirata professorale, questa lezioncina? Mira a portarvi all’indignazione contro un ennesimo episodio in cui mi sono imbattuto di abuso dell’informazione contro la cultura e la scuola. Si può dire che non si tratta di faccende importanti, che sia un cercare le farfalle sotto l’arco di Tito... Ma intanto abbiamo riletto insieme una bella poesia.
Dunque, il 20 febbraio 1994 al centro della pagina culturale di un quotidiano (informazioni di massa) compare un riquadro col titolo “Se Giosuè scippa Torquato”, e, sotto, i ritratti del Carducci e del Tasso. L’idea dello scippo torna nell’articolo con uno “scippò” tra virgolette. Dopo quanto ho tentato di spiegare nella lunga premessa, non starò a dire quanto sia fuori luogo e fuorviante questa idea sia pur in metafora (ma il ...[continua]
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