Di fronte al dolore, di fronte alla sofferenza, ciascuno può sentirsi coinvolto oppure lontano. O anche indifferente.
Nel ruolo di spettatore posso applaudire, commuovermi, considerare lo spettacolo brutto, disgustoso, e anche coinvolgente, che mi tocca da vicino. Ma posso legittimamente considerare che lo spettacolo avrà una fine: e quando abbandono il mio ruolo di spettatore, anche lo spettacolo è finito, si è concluso. E’ circoscritto in una situazione che è propria della spettacolarità. E così, può capitare che molte informazioni sono percepite, da un soggetto simile a me, come spettacolo; si ascoltano, se ne è informati, ci si commuove, ci si indigna, tutti i sentimenti sono possibili: ma è anche sempre possibile uscire dalla condizione dello spettacolo e tornare alla vita, che ci riguarda più propriamente.
Questa doveva essere la situazione che un giovane tedesco, di nome Kurt Gerstein, poteva vivere nel sentire quanto accadeva nella sua patria, la Germania, negli anni alla fine del decennio ’30-’40.
Kurt Gerstein era una persona “coltivata”, si direbbe. Aveva dei buoni studi, una buona preparazione teologica, una conoscenza dell’umanesimo del suo paese, e viveva quello che stava accadendo senza sentirsi particolarmente coinvolto se non, diciamo noi, come spettatore che può uscire quando vuole dallo spettacolo. Ma accadde qualche cosa.
Accadde che una persona della sua famiglia, con disturbi di carattere psichico, fosse individuata e avviata allo sterminio. Era la grande operazione che, con presupposti di carattere tecnico-scientifico, aveva come conseguenza lo sterminio dei malati psichici. Questo fatto non permise a Kurt Gerstein di mantenere il ruolo di spettatore e di sentire quello che stava accadendo come uno spettacolo. Il coinvolgimento cambiò intensità. Non era più solo il coinvolgimento emotivo, che si può avere nel sentire una notizia o nell’osservare una scena, ma era qualche cosa che penetrava in profondità nella stessa ragione esistenziale del giovane Kurt Gerstein. E Gerstein fece una scelta coraggiosa ma difficile da decifrare ancora oggi.
Gerstein nel ’40 venne a conoscenza dell’uccisione e dell’”eliminazione”, come veniva piuttosto detto, dei malati psichiatrici; e venne a sapere che tra le persone eliminate vi era la propria cognata. A seguito di questo decise di entrare nelle SS.
Questa decisione fu presa per avere più possibilità di sapere, cioè di avvicinare i fatti, di avere delle prove, e di cominciare a far sapere ad altri quanto stava accadendo. Si può immaginare che, quindi, le notizie non fossero del tutto chiare, fossero coperte da un linguaggio tecnico che permise in pochi mesi, dal gennaio all’agosto del 1940, di eliminare 70273 malati di mente. L’espressione tecnica impiegata fu “eutanasia”; così come, per altre popolazioni, l’eliminazione era un’eliminazione per popolazioni biologicamente indegne.
Dal momento, però, che l’eliminazione di una persona, su 70273, toccava personalmente la vita e la conoscenza di Gerstein, in lui scattò il desiderio di saperne di più per denunciare, o per far sapere.
Iniziò, quindi, una vicenda umana tra le più difficili. Gerstein ottenne, dopo mesi di servizio, di poter inserirsi nella stessa organizzazione dell’eliminazione, non come esecutore materiale ma come personale tecnico che doveva fornire le sostanze per l’eliminazione e come controllore del progetto. Una condizione di questo genere non gli permise di avere una credibilità tale da poter essere riconosciuto, alla fine del conflitto, e, quindi, alla fine del nazismo, come persona che aveva fatto una scelta contro lo steminio. Rimase in una situazione di ambiguità che lo costrinse ad essere prigioniero, e su di lui fu necessario avere maggiore conoscenza, svolgere delle indagini.
Questo fatto, questa difficoltà ulteriore, o la sua stessa figura di individuo che aveva molte cose da rivelare sulla implicita complicità tra vincitori e vinti, lo portarono alla morte. Sulla morte di Gerstein non sappiamo dire molto di più, se non che fu un suicidio sospetto, che rimase l’idea che potesse essere stato portato al suicidio, o che il suo suicidio fosse stato messo in scena. Il sospetto, appunto, che la sua figura fosse troppo scomoda, e che la sua voce potesse raccontare le difficoltà avute nell’essere ascoltato, una volta in possesso delle prove dello sterminio.
Perché Gerstein fece ogni te ...[continua]
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