In questo capitolo ci occupiamo soprattutto di ciò che riguarda la conquista del suolo e pertanto siamo costretti a riportarci indietro, per studiare particolareggiatamente i mezzi adottati dalla borghesia per impadronirsi dell’unica fonte d’ogni prodotto e d’ogni ricchezza.
Con decreto 2 agosto 1806 i diritti giurisdizionali dei baroni del reame di Napoli furono aboliti; altrettanto usi e abusi feudali sulle persone e sulle cose, che un celebre scrittore, il Winspeare, contò in numero di 1395; si ordinò che ogni sorta di dominii, feudali, ecclesiastici, comunali o misti (cioè proprietà miste di feudatari e di comunità, beni promiscui) fossero divisi prima tra i baroni e i comuni, proporzionatamente ai rispettivi diritti, affinché diventassero ormai proprietà libera e assoluta. La parte assegnata ai comuni doveva a sua volta essere ripartita, suddivisa tra gli abitanti poveri del comune in ricompensa dei diritti già da questi posseduti sull’intera estensione di quei fondi, diritto di pascolo, di legnatico, perfino di coltivazione; diritti storici e naturali così essenziali all’esistenza delle popolazioni che, secondo le leggi vigenti, non soltanto erano inalienabili, ma neppure il re poteva toccarli, adeo ut nec per Regem eis tolli possit.
L’albero della feudalità veniva così abbattuto, ma le sue radici erano penetrate troppo profondamente nel sottosuolo della società perché potessero essere distrutte.
I baroni si rassegnarono facilmente alla perdita dei diritti di sovranità; accettarono volentieri i benefici della legge, che cioè si liberasse una parte della loro proprietà da ogni diritto comunale e delle popolazioni, ma non si adattarono alla perdita dell’altra parte e, per dirla col poeta "s’ei fur cacciati, ei tornar d’ogni parte”. Per mezzo dei loro agenti e con la connivenza, la tolleranza dei rappresentanti delle collettività, rioccuparono abusivamente questa o quella parte di fondi che, assegnata alla collettività, doveva esser suddivisa fra gli abitanti poveri. In seguito il loro esempio fu imitato dagli eredi e cointeressati; e finalmente, poiché il fondo comunale era considerato res nullius (la roba del comune è roba di nessuno, dice un proverbio popolare) le persone più agiate, le più influenti del luogo tentarono di impadronirsene. I torbidi politici, i cambiamenti di governo offrirono occasioni propizie a quella usurpazione perché, nella confusione allora regnante, ogni arbitrio passava inosservato o almeno impunito. Infatti la spoliazione diventò così generale alla fine del regno di Murat e all’inizio della restaurazione borbonica, che perfino il governo ne fu commosso, e con decreto 12 dicembre 1816 ordinò ai commissari incaricati della ripartizione delle terre feudali e comunali di rimettere con semplici ordinanze tutti i comuni in possesso dei beni usurpati o illegalmente alienati, dietro semplice atto notorio della usurpazione. Tale espediente prese il nome di reintegrazione amministrativa.
Dapprincipio quella legge fu talvolta applicata; alcuni comuni rientrarono in possesso delle loro terre; furono fatte spartizioni fra i contadini. Ma, nella maggior parte dei casi, nulla mutò: persino, mentre si poneva fine alle antiche occupazion ...[continua]
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