La bandiera nera
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Una Città n° 310 / 2025 maggio-giugno
Intervista a Yigal Shohat
Realizzata da Haim Hanegbi
LA BANDIERA NERA
Nel gennaio 2002 a Tel Aviv si è tenuto un forum di discussione promosso da Gush Shalom, organizzazione pacifista fondata nel 1993 da Uri Avnery. Tra i partecipanti: Yigal Shohat, Colonnello in pensione dell’Aviazione israeliana; Eyal Gross, Facoltà di Legge, Università di Tel Aviv; Adi Ophir, Dipartimento di Filosofia, Università di Tel Aviv; Dov Tamari, Generale in pensione; Michael Tarazi, consulente legale per i Negoziati dell’Olp, Ramallah; Shulamit Aloni, ex Ministro dell’Educazione e leader del partito Meretz; moderatore: Haim Hanegbi.
Dei tre o quattro nella stanza
Uno è sempre vicino alla finestra,
Deve vedere
I misfatti tra i rovi
Ed i fuochi sulla collina,
E come la gente partita intera la mattina
È tornata sotto forma di poche monetine la sera
Yigal Shohat. Questa sera sono qui in seguito a una lettera che scrissi in luglio. In quella lettera non parlavo di un’obiezione di coscienza totale. La verità è che non ho ancora pienamente elaborato una mia opinione sull’opzione di rifiutare completamente il servizio militare nell’Idf (esercito israeliano).
Io sono a favore dello Stato di Israele, per la difesa della sua sicurezza, per la difesa dei suoi confini e anche per la lotta contro il terrorismo locale e internazionale che ci minaccia. Per questo l’esercito è necessario. D’altra parte non posso rassegnarmi ad accettare l’attuale occupazione in corso. Il fatto che una dopo l’altra le generazioni dei soldati continuino a essere impiegate in questa occupazione dà ai governi che si susseguono il potere di mantenere il controllo su territori e colonie e di opprimere i palestinesi. Mi trovo quindi in questo grave dilemma che per me, almeno temporaneamente, ho risolto opponendomi al servizio militare nei territori occupati più che con un rifiuto totale alla leva. So che c’è dell’ipocrisia in questa scelta. Un soldato che lavora negli uffici dello Stato Generale a Tel Aviv, svolgendo mansioni burocratiche può procurare più danno di un soldato a un checkpoint nei territori. E tuttavia io credo che il rifiuto di servire l’esercito nei territori occupati dia un messaggio politico e morale più preciso. Significa che tu vuoi proteggere il tuo paese e combattere per esso, e però non sei disposto a opprimere un’altra nazione, atto peraltro con effetti negativi sul piano della sicurezza di Israele. Attualmente infatti il servizio militare nei territori occupati mette a repentaglio la sicurezza di Israele e serve solo alla sicurezza dei coloni. Credo ci sia un accordo generale su questo punto.
Per quanto riguarda i piloti di elicotteri, da combattimento, tutti i piloti, non possono limitarsi a rifiutare di operare oltre la linea verde (confini ’67), perché la loro azione non è limitata al luogo in cui vengono mandati. Loro devono decidere, giorno per giorno, a volte di ora in ora, ciò che possono e ciò che non possono fare in base a una prospettiva morale e legale. Non sono un ingenuo. So che qualunque pilota rifiuti una prima o una seconda volta di bombardare Nablus o Ramallah finirà presto la sua carriera -perché comunque è una carriera. Volare è un modo di vita e una professione. Non si tratta mai solamente di un’azione, da coscritto o da riservista, da farsi rapidamente tornando a casa salvi. Quindi, quando discutiamo di piloti, io sono del parere di espandere il concetto di “bandiera nera”.
A mio avviso, i piloti devono esaminare gli ordini che ricevono molto attentamente, fare tutte le domande possibili sugli obiettivi e rifiutare di seguire qualsiasi ordine paia loro illegale.
In realtà io temo che loro non siano affatto preoccupati di questi discorsi. Piuttosto temo che ognuno competa con gli altri per vedersi assegnato il compito di assassinare qualcuno nella strada principale di Nablus, o di lanciare una bomba su un edificio di Ramallah. Probabilmente rientrano soddisfatti quando colpiscono il loro obiettivo, casomai dispiaciuti se è stato ucciso anche qualche civile. Ricordo di aver provato anch’io questi stessi sentimenti. La gente vuole distinguersi nel proprio lavoro, vuole l’“azione”. Del resto è per questo che diventano piloti da combattimento.
Credo che un pilota di F-16 dovrebbe rifiutarsi di bombardare città palestinesi.
Posso immaginare come doveva sembrare Ramallah quando un F-16 ha bombardato il suo Quartiere generale. E non mi riferisco semplicemente alle persone uccise, parlo proprio dello scenario di un bombardamento su una città densamente popolata. Parlo dell’assassinio di tre passanti nella strada principale con missili lanciati da un elicottero. Questo non può essere considerato un “danno collaterale”; non ci si può appellare al fatto che non c’era l’intenzione di colpire civili. Quando si bombarda una città popolata, le vittime civili vanno sempre tenute in considerazione preventiva. Anche quando si suppone che le bombe colpiscano l’obiettivo con precisione chirurgica.
Si tratta comunque di omicidio premeditato di civili. Un crimine di guerra.
Io non credo che l’obiettivo sia sufficiente affinché noi paghiamo un tale prezzo; specialmente se dall’altra parte abbiamo dei civili e non un esercito. Specialmente se la nostra causa è ingiusta. Molto ingiusta. Perché per me l’obiettivo principale di questa battaglia non è legittimo, come non è legittima l’occupazione. Lo stesso obiettivo secondario, distruggere i palazzi della polizia per fare pressioni su Arafat affinché fermi il terrorismo, è anch’esso illegittimo.
Tuttavia i piloti non sono gli unici coinvolti in crimini di guerra. Anzi, verosimilmente sono meno coinvolti di altri. Ogni autista di bulldozer dovrebbe rifiutare l’ordine di demolire case così da creare un terreno di battaglia per l’Idf.
Ho letto su “Ha’aretz” l’intervista al brigadiere generale Dov Zadka, dell’Amministrazione Civile del governo militare. Ho letto delle autorizzazioni che dà per distruggere piantagioni e frutteti palestinesi e delle sue lamentele quando gli ufficiali poi sul terreno diventano iperattivi sradicando il doppio degli alberi autorizzati.
Ma con quale autorità autorizza azioni di questo tipo, di questa gravità? Resto assolutamente stupefatto ogni volta che penso a una persona che alla mattina si alza per fare un lavoro di questo tipo. Non parliamo infatti di un giovane appena coscritto, ma di un generale con molti anni di esperienza e addestramento. Voglio dire: cosa si dice alla fine di ogni giorno? “Oggi ho autorizzato la distruzione di cinquanta acri di campi di fragole”. E a che scopo? Per la sicurezza dello stato?
Capisco che oggi il generale Zadka sia preoccupato di finire al Tribunale per i crimini di guerra dell’Aja; in effetti potrebbe. Quindi è consapevole di cosa sta facendo e delle sue implicazioni. Come si può essere consapevoli e però continuare a compiere tali azioni? Credo che la distruzione di case di civili, solo perché ostruiscono il campo visivo dei tiratori scelti, sia un’azione immorale per definizione. Non sono un avvocato, ma immagino che sia anche illegale.
Se stia o meno sventolando una bandiera nera rispetto a un certo ordine è una questione prettamente personale. Non si può aspettare che una corte si pronunci su un’azione definendola illegale. Non bisognerebbe mai aspettare, perché poi è troppo tardi, come nel caso di Ehud Yatom (l’agente dei servizi di sicurezza che, obbedendo, ordinò l’uccisione di due prigionieri palestinesi nel 1984, Ndr). Ci sono persone che non vedono mai la bandiera nera, neanche quando si tratta dell’assassinio di un arabo legato. Ci sono persone che vedono le bandiere nere solo quando sono vecchi, come me.
Quando io ero un giovane pilota non ho mai discusso gli ordini, facevo quanto mi veniva detto.
Sono per un uso più esteso del concetto di “bandiera nera”, nel senso di rifiutarsi di obbedire a un ordine manifestamente illegale. So che né i coscritti né i sodati di carriera la useranno spesso. Quando ci sei dentro, le cose le vedi in modo diverso. Penso che anche stare a un checkpoint nei territori occupati a selezionare chi andrà all’ospedale e chi no, quale donna raggiungerà la sala parto e quale sarà trattenuta e partorirà lì, vicino al checkpoint, sia ugualmente un lavoro illegale. Credo dunque che chiunque venga chiamato a fare il suo servizio presso i checkpoint dovrebbe rifiutarsi, anche al prezzo di essere condannato. Sarebbe inoltre opportuno che la questione della “selezione” ai checkpoint venisse esaminata in un tribunale.
Non si dovrebbe permettere all’esercito di piazzare checkpoint a proprio piacimento per impedire alla gente di vivere la propria vita, andare a lavorare, dal medico… non dobbiamo accettare questa situazione come se l’ordine fosse arrivato dal Cielo. Questa è una punizione collettiva di civili. È illegale secondo la Convenzione di Ginevra.
Credo sia vergognoso che così pochi rifiutino di servire nei territori. Tuttavia non mi sento di biasimare nessuno, dato che io stesso non rifiutai quando avrei dovuto.
Vent’anni fa andai a trovare il prof. Isaiah Leibowitz. Lui allora, era il 1983, mi chiese com’era possibile che non si fossero trovati cinquecento ufficiali che rifiutavano di servire nei territori occupati. A suo avviso, con cinquencento di questi ufficiali si sarebbe posta una fine immediata all’occupazione. Credo avesse ragione.
Presto non sarà neanche più possibile parlare dell’occupazione, dato che la nostra presenza nei territori per un così lungo periodo ha creato una situazione nuova. Quelli coscritti nei territori sono rientrati quando sono diventati riservisti, e i loro figli hanno preso il loro posto. Un atteggiamento di apartheid verso i palestinesi è passato di generazione in generazione. E questo vale non solo per i coloni, ma per noi tutti. Non ci fossero stati episodi violenti, non ci saremmo nemmeno ricordati che ci sono i palestinesi.
Non posso dire se tutte le azioni militari cui ho partecipato quando ero in servizio come pilota da combattimento fossero legali o morali. Presumo di no. Amici di quel periodo, che bombardavano gli obiettivi con me, mi accusano di aver preso la decisione di diventare moralmente sensibile troppo tardi; che non ci vuole molto a parlare di obiezione di coscienza quando non ha più niente a che fare con me, quando comunque non finirei dietro le sbarre. Dicono che ho mantenuto il silenzio per tutto il tempo in cui ero preoccupato di essere promosso nei ranghi dell’Idf, e che ora che non ho niente da perdere sono subito diventato un eroe.
A questo rispondo: è vero che ho raggiunto una maturità politica e morale molto tardi. Tuttavia allora gli obiettivi erano militari, c’era un contesto di guerra assoluta, con aerei e tank e soldati da entrambe le parti, ed era assolutamente incerto chi avrebbe vinto. Nelle guerre cui ho partecipato, avevamo la sensazione che Israele fosse in una posizione inferiore, che stavamo combattendo per le nostre vite, per le nostre case.
Oggi, nei territori e in questa battaglia militare contro i palestinesi, non vedo un confronto tra due eserciti. Per quanto riguarda questa guerra, io non so nemmeno da che parte sto -dato che certo non sto con i coloni. Quello che vedo è una popolazione occupata con qualche centinaia di fucili e mortai che cercano di mandarci via e noi ci opponiamo per i quattro soldi investiti in questi insediamenti inutili.
Tutti questi argomenti contro l’obiezione di coscienza mi sono familiari. Prima di tutto si dice che in una democrazia spetta al governo eletto definire cos’è e cosa non è un obiettivo legittimo. Io non sono d’accordo.
In particolar modo in una democrazia c’è il diritto e la responsabilità di ogni cittadino di opporsi a modalità di lotta illegittime. È proprio in democrazia che uno ha l’opportunità di non seguire la massa.
Il secondo argomento dice che ci vorrebbero soldati più umani e ragionevoli ai checkpoint, in grado di migliorare la situazione dei palestinesi, anziché lasciarli in balia dei fanatici della destra. Ma io francamente dubito del ruolo conferito al singolo soldato, perché col tempo diventiamo tutti indifferenti alla sofferenza quotidiana. Credo che il singolo soldato abbia il peso maggiore quando rifiuta di servire l’esercito.
Il terzo argomento è che se ciascuno sceglie a quale ordine obbedire e a quale no, allora quando sarà il momento i coloni e i loro sostenitori rifiuteranno di prendere parte all’ordine di evacuazione. Su questo dico solo che per me va bene. I soldati che sono essi stessi dei coloni rifiuteranno di evacuare le colonie e noi lo faremo al loro posto. Io, per dire, mi sarei rifiutato di guidare il bulldozer che distrugge la casa di una famiglia palestinese; un colono rifiuterebbe di evacuare una famiglia di coloni. Va bene. L’importante è che i soldati dell’Idf mantengano la loro umanità e che sentano i dilemmi morali. Dal mio punto di vista infatti le azioni dell’Idf stanno raggiungendo la linea rossa della bandiera nera. Non so dire in dettaglio cosa sia legale e cosa rappresenti un crimine di guerra. Credo che abbiamo già oltrepassato qualche spartiacque fondamentale. Ho davvero paura che in un futuro non troppo lontano bombarderemo anche i cittadini arabi di Israele, dato che gli abbiamo già sparato contro durante le manifestazioni dell’ottobre 2000.
Non so nemmeno se i piloti a quel punto rifiuteranno di eseguire quell’ordine. Qualcuno infatti li convincerà che è logico e vitale, che le bombe sono intelligenti, che stanno bombardando il movimento islamico. Verranno convinti di non star colpendo degli innocenti. Non vedo una grande differenza tra questo e il bombardamento di Ramallah.
Haim Hanegbi. Prima di passare la parola al prossimo ospite vorrei citare il caso di un crimine di guerra, l’ordine operativo per un’unità militare israeliana che effettuò un raid lungo i confini nel 1953 e che è venuto alla luce solo quarant’anni più tardi. Il 9 settembre 1994, “Ha’aretz” ha pubblicato le foto del documento originale, scritto a mano dal comandante: “Obiettivo: attaccare il villaggio di Kibiya, occuparlo e causare il massimo danno alla vita e alla proprietà”. Le ultime sei parole erano sottolineate. L’ordine è firmato dal Maggiore Ariel Sharon, Comandante dell’unità 101 delle Forze Speciali.
Eyal Gross. Innanzitutto vorrei congratularmi con Ygal Shohat per le cose commoventi e importanti che ha appena detto. Fosse per me, queste parole comparirebbero nella prima pagina di tutti i giornali. Recentemente sono stato invitato a intervenire sul tema dei crimini di guerra in vari ambiti, all’Holocaust Memorial Council, al Consiglio per la Pace e la Sicurezza… l’interesse rivolto a tale questione è il risultato di un rapido cambiamento dell’atteggiamento della comunità internazionale verso di essa.
Vorrei cercare di spiegare cosa sta accadendo nelle corti internazionali e a cosa la gente si riferisce quando usa la parola magica “L’Aja”. Negli ultimi anni c’è stata un’intensificazione di una tendenza che di per sé è lungi dall’essere nuova: la definizione di “violazione” universale, per la quale una persona può essere condannata a prescindere dal luogo in cui l’azione è stata commessa. In genere la legge è territoriale. Se io commetto un furto in Israele, solo un tribunale israeliano mi può giudicare. Ma ci sono sempre state delle eccezioni. Una ben nota violazione universale, protrattasi per secoli, è la pirateria. In assenza di una corte internazionale, un pirata può essere giudicato dal tribunale di qualsiasi paese, anche di uno sulle cui navi lui non ha mai rubato.
Oggi esistono due tendenze: rafforzare i tribunali dei singoli paesi, così da metterli in grado di giudicare anche gli accusati di violazioni universali; creare uno specifico tribunale internazionale.
Un caso recente è l’Affaire Pinochet. La Spagna ha chiesto alla Gran Bretagna di estradare Pinochet così che fosse processato in Spagna per torture (peraltro non commesse sul suolo spagnolo). La Camera dei Lord ha stabilito che fosse estradato. Alla fine le cose sono andate diversamente perché il Governo inglese ha affermato che la sua salute era troppo precaria. Tuttavia resta questo importante precedente: la Camera dei Lord ha stabilito che una persona accusata di crimini universali può essere estradata, e che il fatto di essere stato capo della stato non è elemento di immunità.
La legislazione belga poi rende possibile estradare per le violazione alla Quarta Convenzione di Ginevra, che prevede la protezione dei civili in tempo di guerra, in particolare dei civili sottoposti a occupazione. I primi a essere giudicati in base a questa norma sono stati i cittadini del Rwanda.
Ora è in base a questa legge belga che il caso Sharon è stato presentato a Bruxelles. La legge belga è chiara sulla questione dell’immunità. Ciò che invece resta elemento di accesi dibattiti, anche in Belgio, è se questa legge sia retroattiva rispetto ai crimini commessi prima che fosse emessa.
Bisogna ricordare che il primo precedente internazionale a questo proposito è stato creato proprio in Israele, col processo a Eichmann.
Un precedente di legislazione retroattiva si è infatti realizzato quando le corti israeliane si sono assunte il diritto di giudicare una persona per atti commessi molto prima che fosse varata la “Legge per una vera giustizia sui nazisti e i loro collaboratori”, anzi prima che lo stesso Stato di Israele nascesse. I belgi (e molti altri) si affidarono al verdetto di Israele nel Processo Eichmann, in particolare a quello emesso dalla Corte Suprema. (C’è una differenza rilevante tra le due corti che giudicarono Eichmann: il tribunale distrettuale di Gerusalemme enfatizzò l’aspetto ebraico -essendo le sue vittime prevalentemente ebree, Israele, in quanto stato ebraico, aveva il diritto di giudicarlo. La Corte Suprema, nel rigettare il suo appello, enfatizzò al contrario l’aspetto universale -il diritto e il dovere di qualsiasi stato di punire i colpevoli di genocidio, anche se lo stato in questione non ha avuto alcun legame diretto con il crimine).
Voi potreste dire: come puoi fare un tale paragone? Ebbene, non sto paragonando Sharon a Eichmann; tuttavia dal punto di vista legislativo, il processo Eichmann rimane il più rilevante precedente internazionale, ed è stato creato da Israele. Israele è stato anche tra i maggiori promotori di una giurisdizione internazionale emanando la sua “Legge contro i crimini di Genocidio”, in base alla quale chiunque commetta crimini di genocidio può essere giudicato da un tribunale israeliano, ad esempio il Rwanda, pur non avendo avuto a che fare con Israele.
Ora, per quanto riguarda l’altra tendenza, un tribunale internazionale specifico, il primo caso conosciuto sono i processi di Norimberga. Si trattava di un tribunale molto speciale, voluto per giudicare i membri di uno specifico regime di uno specifico paese, peraltro piuttosto controverso. Dopo aver svolto il suo compito ed essere stato sciolto, per decadi non c’è stato niente del genere, fino al 1990 quando il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha messo in piedi un Tribunale per i crimini di guerra per il Rwanda e la ex Yugoslavia. A ciò è seguita la conferenza di Roma, conclusasi con la decisione di avviare un Tribunale Permanente per i Crimini di Guerra, con sede all’Aja. Questa corte, che non si è ancora insediata, dovrebbe distinguersi nettamente dal Tribunale Internazionale dell’Aja, che già opera da circa un secolo in quella stessa sede. In quel tribunale dovrebbero comparire solo gli stati, gli individui non sono di sua competenza; e anche tra gli stati solo quelli che hanno riconosciuto la sua autorità e si sono sottomessi alle sue leggi.
Questo tribunale permanente internazionale si insedierà all’Aja quando almeno sessanta stati avranno ratificato il Trattato di Roma. Da parte loro, Israele e gli Stati Uniti hanno già chiaramente espresso la loro contrarietà: non firmeranno a meno di garantire che nessuno dei loro cittadini sarà mai processato da tale tribunale.
Il Trattato di Roma si occupa delle violazioni che tale corte è legittimata a giudicare: i crimini di genocidio, i crimini contro l’umanità, che includono l’evacuazione, o azioni sistematiche a danno di popolazioni civili con assassinii, sterminio, torture, espulsione, stupro o apartheid; i crimini di guerra, che includono gravi violazioni della Quarta Convenzione di Ginevra, e tra queste l’uccisione di civili e la distruzione di proprietà non necessarie a scopi bellici immediati. È incluso anche il trasferimento di popolazione dal proprio territorio in territori occupati, ossia la creazione di insediamenti. È per questo che Israele non ha voluto ratificare quel trattato. Un’altra violazione che tale tribunale è in potere di giudicare è quella di aggressione, anche se non verrà contemplata fino a che non si arriverà a una definizione condivisa di “aggressione”, questione legalmente piuttosto complicata.
Rispetto al Tribunale internazionale per i crimini di guerra, è stato specificato che non ci sarà giurisdizione retroattiva: la corte si occuperà solo delle violazioni compiute dopo la sua creazione.
La questione principale è come opererà questa corte e chi verrà giudicato. Sono state identificate tre categorie. Primo, i cittadini degli stati che hanno ratificato il trattato. In secondo luogo, quelli accusati di violazioni commesse nel territorio di uno stato che ha sottoscritto il trattato, anche se lo stato che ha commesso l’azione non ha riconosciuto la corte. Per esempio, il Libano l’ha ratificato, quindi Israele può essere giudicata per le violazioni compiute in territorio libanese. I territori dell’Autorità Palestinese, non costituendo uno stato, restano una questione piuttosto complicata sul piano legale. La terza possibilità è che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu possa decidere della condanna di un individuo preciso per violazioni particolari. Questo ovviamente è soggetto alle regolari procedure operative del Consiglio e al potere di veto dei suoi membri.
Un’ulteriore limitazione alla Corte Internazionale è che non ha il potere di intervenire se uno stato decide di condurre un’indagine seria sulle accuse avanzate contro uno dei suoi cittadini -anche se alla fine lo stato decide di non perseguire tale cittadino nei suoi tribunali.
Fino a che non si insedierà tale corte, i procedimenti contro gli accusati di crimini di guerra proseguono nei tribunali ordinari degli stati. Questo vale per il procedimento contro Sharon in Belgio e per il tentativo, fallito, di condannare Carmi Gillon in Danimarca. Entrambi questi casi risultano problematici per la questione dell’immunità.
Nel frattempo, infine, dovremmo ricordare l’importante definizione di ordine manifestamente illegale, “su cui sventola la bandiera nera dell’illegalità”. A mio avviso, l’ordine di torturare un prigioniero, di distruggere le case, ecc., sono tutti ordini manifestamente illegali. Quindi l’invito a disobbedire a un tale ordine è un invito a preservare la legge contro quelli che la vogliono infrangere. Un soldato seduto su un bulldozer che rifiuta di demolire una casa merita il pieno sostegno di tutte le organizzazioni civili e di tutela dei diritti umani.
Personalmente, come coordinatore dell’Acri (Association for Civil Rights in Israele) propongo che l’associazione si assuma l’onere della difesa di questi soldati.
Dov Tamari. Ciò che voglio dire non è necessariamente in contraddizione con quanto detto da chi mi ha preceduto, però vorrei introdurre un diverso punto di vista: la differenza tra le vecchie guerre e le nuove. Le vecchie guerre, quelle del XIX e gran parte del XX secolo, come le due guerre mondiali, erano guerre di uno stato contro un altro stato, di un esercito contro un altro esercito; guerre il cui obiettivo, da entrambe le parti, era quello di difendere lo stato e di usare l’intero apparato statale per raggiungere per quanto possibile gli interessi dello stato. Ma nelle ultime decadi c’è stato un cambiamento significativo, una riduzione considerevole delle guerre di quel tipo e un corrispondente aumento delle guerre di altro tipo: le “piccole guerre”, che era il significato originario del termine “guerriglia”, sebbene oggi quest’espressione abbia accumulato molti altri significati e connotazioni.
Questa è la “sorella” minore, emarginata, della “Grande Guerra” convenzionale.
Ebbene, chi continua a pensare e ad agire nei termini di una struttura logica simmetrica non può capire cosa accade in un conflitto a-simmetrico, un conflitto tra uno stato e un’entità non-stato: uno stato elusivo, senza una presenza visibile, in opposizione alla presenza di un esercito convenzionale; un’entità decentrata che lotta per la sopravvivenza etnica o culturale-religiosa, come nel caso di Bin Laden. Il concetto di “infrastruttura terroristica” non ha un significato chiaro. Nel 1982 essa includeva anche scuole e organizzazioni religiose nei campi profughi.
Più tardi anche le moschee erano comprese. Il fatto è che tali “infrastrutture terroristiche” sono costituite da persone, da tante persone. Se vuoi distruggere tale struttura dovresti cominciare a uccidere la gente in massa; se non vuoi fare questo, devi rinunciare all’idea. L’attuale legislazione di guerra non è adatta a una situazione di guerra non-simmetrica. C’è un gap tra la percezione della guerra in Occidente e quest’altra forma, nomade, elusiva. Ciò che non rientra nella logica della “Big War” viene semplicemente criminalizzato e raccolto alla rinfusa sotto l’etichetta di “terrorismo”, che è un’espressione assolutamente inadeguata.
Vicino a noi c’è un’entità palestinese -e deliberatamente parlo di “entità” e non di “autorità”. Quando la si esamina, si vede un’autorità che si comporta come uno stato, che ha un parlamento, un esercito. E tuttavia, dietro tutto questo c’è anche un’entità elusiva, che la si chiami Hamas, Jihad o Tanzim. Un’entità mutevole, senza regole fisse, legata a un patto di sangue, ma anche in grado di fermare gli assassini quando è il caso, con grande capacità di apprendimento.
Tutto questo rappresenta un’entità. Non si tratta di cospirazione, non è che Arafat abbia riunioni segrete con Hamas con cui progetta tutto, come spesso si cerca di far passare. È solo che il concetto palestinese di guerra è diverso dal nostro, una diversa cultura di lotta che noi persistiamo a interpretare secondo le nostre categorie, col risultato che regolarmente raggiungiamo conclusioni sbagliate.
È per questo che lo stessa famosa formula di Sharon “sette giorni di tregua” è completamente sbagliata. Lo stesso vale per l’idea di “teoria palestinese delle fasi” -fosse stata corretta, i palestinesi avrebbero creato uno stato a partire dall’offerta di Barak e poi l’avrebbero usato come punto di partenza per la “fase” successiva.
È dal ’67 che continuiamo a imbatterci in questa situazione problematica. Abbiamo un sistema di pensiero binario che implica un chiaro “sì” o “no” e che regolarmente viene eluso dalla controparte.
La nostra politica è assolutamente reattiva. Io credo sia arrivato il momento di imparare a vivere in una situazione senza soluzione.
Questa mia visione della situazione è iniziata una notte, la notte tra il 7 e l’8 agosto del 1970, quando il cessate il fuoco tra noi e gli egiziani si rivelò efficace.
Dal 1970 Israele ha mancato tutte le opportunità. Appena i territori sono passati sotto le nostre mani avremmo potuto creare lo stato palestinese, avremmo addirittura potuto imporre la sua creazione. Le successive proposte per l’Autonomia palestinese non hanno portato a niente. Poi lo sviluppo degli accordi di Oslo è stato condizionato alle varie fasi di costruzione della fiducia reciproca, mentre di fatto tale fiducia veniva distrutta anziché costruita. La cancellazione della linea verde ha spinto i palestinesi a ovest anziché a est. Gli insediamenti erano finalizzati a espellere i palestinesi verso est, era questa la logica della loro creazione. In realtà invece l’occupazione ha spinto i palestinesi verso ovest, per trovare miseri lavori e per fare qui i loro attentati.
Stiamo di fatto tornando all’epoca del movimento dei kibbutz di Mappam, in cui si parlava di stato bi-nazionale. Se non si vuole questo, è necessario un confine, è l’unico riferimento tra due stati. Non si può certo arrivare a una situazione in cui da una parte del confine c’è uno stato e dall’altra non c’è. Non abbiamo raggiunto la pace con gli Hezbollah in Libano e però c’è un confine tra noi e il Libano e si fa appunto riferimento a quello. Israele però ha la tendenza a parlare di “linee” più che di confini; la linea dell’armistizio, del cessate il fuoco; abbiamo ignorato il concetto di confine fino a che non ne abbiamo dovuto trovare uno chiaro con Egitto e Giordania, e però non l’abbiamo cercato in altri luoghi.
Adi Ophir. L’esercito israeliano è coinvolto in crimini di guerra -su questo credo siamo tutti d’accordo qui. La questione allora è: in quale tribunale è possibile giudicare i colpevoli. Esistono già alcuni tribunali; altri dovrebbero essere creati in futuro. C’è anche la possibilità di mettere in scena delle corti simulate, cosa che potrebbe almeno portare alcuni degli accusati davanti al tribunale dell’opinione pubblica. E poi ci sono le Ong, il cui obiettivo è documentare, raccogliere prove per identificare il colpevole.
Sulla base di quanto detto, non dovremmo fermarci alla questione astratta se Israele sia sulla via per l’Aja, bensì su qualcosa di più concreto: perché non stiamo facendo tutto il possibile per assicurare che le persone coinvolte vengano là giudicate, persone i cui nomi, cognomi e dettagli dei misfatti sono già ben noti? Per esempio, perché non si apre un dossier su Ben Elezier? Sappiamo tutti quello che ha fatto, di che cosa è responsabile; e tanti altri dossier su chiunque possa essere responsabile; dai generali scendendo ai comandanti di brigata e battaglione fino ai sergenti e caporali dei checkpoint.
Perché B’Tselem, per dire, non comincia a compilare questi dossier?
Questo avrebbe un immediato valore di disturbo. Gli ufficiali esiteranno di fronte all’ipotesi di espatriare, chiederanno consulenze legali. Di più: pretendendo questo, si avvierà un’internazionalizzazione del conflitto -processo assolutamente vitale dato che Israele sembra incapace di tirarsi fuori da questo abisso da sola.
Ovviamente questo passo ha un prezzo. In primo luogo, parlare di crimine di guerra potrebbe avere l’effetto di de-politicizzare la discussione, focalizzando tutto sulla singola persona, ignorando il problema più generale dell’occupazione in corso. Inoltre, i gruppi che già stanno compilando dossier su singole persone, distribuendoli nel mondo, via internet, missioni diplomatiche, ecc., potrebbero essere ulteriormente marginalizzati. Come se non fossimo già abbastanza isolati e reietti.
Nonostante tutto però, va fatto. Dobbiamo ricordare il contesto generale. Dall’esplosione della nuova intifada, dal fallimento di Camp David, si è creata una nuova situazione. L’occupazione è entrata in una nuova fase, in particolare dopo l’elezione di Sharon. Il gap tra il “di diritto” e il “di fatto”, che ancora esisteva fino a Oslo, non c’è più. Tra il 1993 e il 2000 di fatto c’è stata un’occupazione crescente sul terreno che ha intaccato la vita quotidiana dei palestinesi. Tuttavia, di diritto, negli accordi e nei processi politici, si è protratto l’assunto per cui l’occupazione sarebbe temporanea, una situazione che dà speranza, una finestra che si apre su un futuro migliore. Nel febbraio 2001 questa finestra è stata chiusa. Allo stato attuale non c’è una dimensione politica, non ci sono piani sensati per alcun tipo di processo politico. C’è l’occupazione, punto. Occupazione di fatto e occupazione di diritto.
Un elemento molto importante è rimasto da Oslo: la temporaneità. Nessuno pensa che questa situazione sia, o possa essere, permanente. È tutto temporaneo: la chiusura dei confini è temporanea, l’assedio è temporaneo… tutto è temporaneo. La temporaneità è la legge. Questo è terribile. Coperti dalla temporaneità, gli occupanti possono fare qualsiasi cosa, perché è un’emergenza. Coperti dalla temporaneità, avvengono molti crimini di guerra.
Coperta dalla temporaneità, la società può essere spinta a chiudere gli occhi e a ignorare tutto.
Proprio per questa dinamica, i palestinesi non hanno altra scelta che resistere -una resistenza che peraltro è legittima agli occhi del sionismo. Se infatti guardi alla situazione palestinese nel quadro del Sionismo e chiedi: “Cosa faresti tu in una tale situazione?”, gli stessi promotori dell’occupazione dovrebbero rispondere: “Beh, io in questa situazione, resisterei”. Come una volta ebbe a dire Barak: “Se fossi nato palestinese, sarei diventato un terrorista”.
Ovviamente questa equazione non è all’ordine del giorno, era un’affermazione straordinaria anche nel caso di Barak. Generalmente c’è una completa, o quasi, cecità rispetto alla situazione della controparte, non c’è la volontà di mettersi, neanche per un momento, nei panni dell’altro.
È questa la situazione a cui ha dato vita il nuovo regime di occupazione, creando una società israeliana più nazionalista e con un regime di apartheid interno. Non si tratta più infatti solo della discriminazione tradizionale verso gli arabi israeliani rispetto al possesso della terra, il servizio militare e i diritti a esso connessi. Qui è in atto un’escalation in questo processo.
Ho appena letto che il Ministro dell’interno non vuole concedere la cittadinanza israeliana alle mogli dei cittadini arabi e che sta emanando un decreto ministeriale per rendere questa decisione legale. È in atto un tentativo di estromettere gli arabi dalla Knesset.
Se ci stiamo muovendo verso un regime di apartheid, allora la nostra reazione dovrebbe essere più dura del semplice rifiuto di andare nei territori. Qui parliamo di un regime a cui non potremmo essere leali. Non c’è lealtà per un regime di apartheid!
Chiunque capisca che occupazione e apartheid vanno assieme non può continuare a considerarsi parte di tutto questo, bisogna dirsi fuori. Quindi l’argomento per cui parlare dell’Aja e della legge internazionale ci isolerebbe è assolutamente irrilevante. Noi dobbiamo muoverci in questa direzione, non solo adottando L’Aja come slogan, ma anche iniziando a riempire i dossier per i futuri processi contro i crimini di guerra, a prescindere che abbiano luogo o meno.
Michael Tarazi. Io sono consulente legale per il dipartimento dei Negoziati a Ramallah. Come avvocato, vorrei parlare del problema dei palestinesi di fronte alla legge internazionale -non rispetto ai testi, bensì alla realizzazione. La maggior parte degli articoli della legge internazionale concernenti i territori occupati dovrebbe essere in favore dei palestinesi, in realtà invece l’occupazione sembra viva e in buona salute.
Nel corso dei negoziati con Israele, prima di Camp David, un membro del team palestinese cercò di portare la questione delle colonie costantemente in espansione, con grave danno per i palestinesi nel processo di costruzione della fiducia e comunque illegale sul piano della giurisdizione internazionale.
Il negoziatore israeliano semplicemente ignorò la domanda. Chiedemmo allora se stessero conducendo i negoziati nell’ambito della legge internazionale o in base ai rapporti di forza sul terreno. Il nostro interlocutore israeliano continuò a ignorare la questione. Poi, quando insistemmo per avere una risposta, se ne uscì dicendo: “Seguiremo la Convenzione di Ginevra solo se saremo costretti”. C’era chiaro già da prima che era questa la politica israeliana. E tuttavia, sentirlo sentenziare con una tale e brutale franchezza, è stato uno shock.
Guardandoci indietro, abbiamo realizzato che questa era la politica sin dall’inizio dei negoziati nel 1993. La stessa terminologia ne era un riflesso. Non si parlava più di “territori occupati” bensì di “territori contesi”, cioè territori su cui nessuno aveva un diritto preciso e il cui destino andava quindi deciso in base alle relazioni di forza. Non facevano la distinzione tra Gerusalemme est e ovest, c’era solo una “Gerusalemme”. Ghilo non era un insediamento, ma un “vicinato”. La gente che vive lì poi non sa nemmeno di essere fuori dalla linea verde.
Come possono le persone comprendere davvero il senso di questo conflitto, se le stesse parole vengono sistematicamente capovolte e usate in modo deliberatamente fuorviante?
Quell’uomo ha detto che Israele avrebbe rispettato la Convenzione di Ginevra solo se costretto. Ma come possiamo noi palestinesi costringerlo? Questo ha a che fare con quanto diceva ora Tamari, con il rapporto tra due stati. Noi non siamo uno stato. Noi siamo stati quindi costretti a cercare qualcuno che facesse rispettare la Convenzione di Ginevra. Questa non è la prima occupazione della storia. Sono state stabilite delle regole su come comportarsi e come non comportarsi in una situazione di occupazione. La Convenzione di Ginevra doveva appunto controllare il rispetto di queste regole.
Alcuni palestinesi si arrabbiano quando dico che l’occupazione di per sé non è illegale sul piano della legge internazionale. Tuttavia la distruzione di case è totalmente illegale, come pure la negazione della libertà di movimento, le deportazioni, la tortura. Tutto questo è assolutamente proibito. Come lo sono, naturalmente, gli insediamenti. La convenzione di Ginevra proibisce espressamente di trasferire la popolazione del paese occupante nei territori occupati. Questo, come il testo della convenzione sentenzia specificamente, è necessario per evitare che gli occupanti possano “minacciare l’esistenza della popolazione locale come etnia”. Lo stato di Israele ha ratificato questa convenzione; era una condizione per far parte dell’Onu nel 1949. Ma Israele non sembra interessato a quella firma, non ne trae alcuna conclusione pratica. La legge internazionale vieta l’estensione dei confini con la forza. I confini legali sono quelli del 1967. Non c’è differenza tra i vari luoghi dell’occupazione. L’occupazione non comincia oltre Ma’aleh Adumim. La stessa Ma’aleh Adumim è un insediamento, come pure Ghilo, spesso definiti “vicinati di Gerusalemme”.
Allora, come applicare la legge internazionale? Noi ci siamo rivolti alle Nazioni Unite. Abbiamo ottenuto centinaia di risoluzioni dell’Onu. A cosa sono servite? Ci siamo rivolti agli stati firmatari della Convenzione di Ginevra. Abbiamo chiesto loro di trasformare in realtà quanto hanno firmato. Si sono detti d’accordo, hanno sorriso, ci hanno dato una pacca sulla spalla. Nel frattempo continuano a comprare i prodotti che vengono dalle colonie e non prendono neanche in considerazione la possibilità di mettere in atto delle sanzioni contro Israele; le sanzioni sono una misura riservata agli stati arabi e musulmani. È come chiedere alla vittima di uno stupro di impegnarsi a rendere più efficace la legge contro il suo stupratore. Se questa avesse avuto tale potere forse non sarebbe nemmeno stata stuprata, per cominciare.
Negli ultimi anni, comunque, sono in atto nuovi sviluppi sul piano della legislazione umanitaria internazionale.
La cosa più importante, dal nostro punto di vista, è chi può citare in giudizio chi. La nuova legge belga permette di perseguire chiunque infranga la legge di guerra, a prescindere dall’identità di persecutore e vittima. Inoltre questo diritto non è più riservato agli stati. Anche gli individui possono presentare istanza. Tra coloro che hanno presentato ricorso contro Sharon a Bruxelles c’è anche Suad Sarur, una donna che fu stuprata durante il massacro di Sabra e Shatila nel 1982. Ha assistito all’assassinio dei suoi genitori e dei cinque fratelli. Poi, dopo tre giorni, mentre cercava di lasciare il campo, è stata riconosciuta dal soldato che l’aveva stuprata, e nuovamente sottoposta a violenza. Le persone che hanno compiuto queste azioni erano miliziani della falange Libanese, alleati di Sharon, uomini che lui aveva introdotto nel campo sotto la protezione militare israeliana.
A noi, Autorità Palestinese, viene chiesto di comportarci come fossimo uno stato, di realizzare tutte le condizioni richieste a uno stato, senza considerare il fatto che noi controlliamo solo il 18% del nostro territorio, frammentato in tredici enclaves scollegate. Se fossimo stati noi a presentare il caso Sharon in Belgio, saremmo stati accusati di fare una provocazione, mettendo a repentaglio la causa della pace, e gli americani avrebbero riportato Sharon al suo posto. Ma ora questa donna può presentarsi da sola alla corte belga, assieme ad altri ventitré palestinesi del Libano, sopravvissuti alla strage.
Qui, nei territori occupati, le Ong palestinesi stanno poi prendendo iniziative per attivare la legge internazionale; stanno raccogliendo prove, non solo contro Sharon e i capi dell’Idf, non solo contro i soldati ai checkpoint, ma anche contro i coloni, contro tutti quelli che distruggono le nostre proprietà nel West Bank, contro i responsabili dei permessi per la costruzione edilizia che allestiscono insediamenti e delle vere e proprie agenzie immobiliari, su cui speculano. Ora si sta documentando e archiviando tutto. E tutto questo lavoro ci servirà, credo, molto più degli attentati terroristici.
Shulamit Aloni. Vorrei proseguire dal punto in cui il precedente relatore ha concluso il suo intervento. La violazione della legge internazionale continua, giorno dopo giorno, nella totale impunità. Noi semplicemente non capiamo questa limitazione di potere. Spieghiamo ai gentili che noi non siamo subordinati a queste leggi e, se non raccolgono il messaggio, allora significa che sono antisemiti.
Golda Meir, dopo il processo Eichmann, disse che noi potevamo fare qualsiasi cosa. Durante la guerra col Libano, Begin disse che nessuno ha il diritto di dirci cosa dobbiamo fare, nemmeno quelli che bombardarono Dresda. Fece anche un attacco feroce contro il cancelliere tedesco Schmidt, anche se noi sapevamo benissimo che il nonno di Schmidt era ebreo e che nulla c’era da biasimare nel comportamento della sua famiglia. Il giorno dopo questa dichiarazione ci fu il peggiore bombardamento di Beirut. Perché se tutto ci è permesso, allora, appunto, possiamo permetterci tutto. I nostri diplomatici ora cercano di vendere alle Nazioni Unite la versione secondo cui i territori non sono tutti occupati, nonostante il fatto che, anche se non li abbiamo mai annessi, li abbiamo comunque sottoposti a un’amministrazione militare, che è il segno distintivo di un’occupazione.
Il professor Yehudah Blum, le cui teorie legali vengono declamate ogni volta che i nostri diplomatici parlano alle Nazioni Unite, si è distinto per la brillante idea che noi abbiamo conquistato questi territori liberandoli da un’occupazione. E quindi sono nostri.
La realtà è che il West Bank era stato posto sotto la giurisdizione della Giordania in seguito agli accordi dell’armistizio del 1949, con il pieno assenso di tutti i partiti e sotto gli auspici dell’Onu. E i giordani, diversamente da noi, non si sono mai comportanti come degli occupanti: hanno concesso ai palestinesi la cittadinanza, oltre alla possibilità di accedere al parlamento e all’esercito della Giordania.
Prima ancora, la dichiarazione di Balfour e il mandato delle Nazioni Unite sulla Palestina -documenti spesso citati a nostro favore- promisero la creazione di una Patria Ebraica in questo paese, ma tutto ciò era vincolato alla tutela dei diritti della preesistente popolazione, una riserva oggi convenientemente dimenticata.
Il nuovo ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite è rimasto seduto con me due ore cercando di convincermi che non c’è alcuna occupazione e che l’intero territorio appartiene a noi. Da parte mia, gli ho fatto notare che, se si rifiuta la mappa dell’armistizio del 1949, rimasta fino al ’67, la logica conclusione non è: “Allora è tutto nostro”. La logica conclusione sarebbe piuttosto quella di tornare alla partizione del 1947, che certo ci piacerebbe molto meno.
Noi non abbiamo firmato alcun trattato sui diritti umani. Non c’è nemmeno un trattato in questa regione. E non abbiamo sottoscritto quello europeo. Vorremmo così tanto essere europei, aspiriamo a entrare in qualsiasi istituzione europea, però quando si viene ai diritti umani, eh, no signore! E non abbiamo sottoscritto il Trattato di Roma, siamo ben spaventati che venga applicato contro di noi.
Dal 1995 abbiamo smesso di essere uno stato democratico. È stata emanata una legge per cui, se non riconosci Israele come “lo Stato degli ebrei” non puoi aver accesso alla Knesset. Gli insediamenti sono illegali. Lo sanno tutti. I primi avevano il pretesto di essere necessari a scopi militari e di sicurezza; la stessa Corte Suprema ha alimentato questo alibi. Di insediamento in insediamento l’avidità cresce, i crimini aumentano, il furto della terra avviene ormai alla luce del sole. Considerando ciò che sta avvenendo attualmente nei territori, si sarebbero dovuti inviare degli osservatori internazionali. Ma gli osservatori non sono mai venuti. E non verranno a causa della tattica che strumentalizza il senso di colpa dell’Occidente cristiano. Quando si sono avviate le procedure per giudicare Sharon in Belgio, quali sono state le reazioni? “Ma questo è contro di me, contro Israele, contro gli ebrei, contro tutte le generazioni degli ebrei!”. Come dire: Sharon è Israele. Sharon è il popolo ebraico. Lui è sacrosanto. E quindi, se i belgi vorranno procedere con la sua condanna, ebbene i belgi sono antisemiti!
Quanta arroganza, e quanta abilità tecnica nel trovare ogni scappatoia possibile per aggirare la legge. Quanto denaro è stato investito in questi coloni della Striscia di Gaza -proprietari rozzi, che coltivano la terra sfruttando manodopera immigrata- ne sarebbe bastato molto meno per garantire un sussidio dignitoso alle persone con disabilità, che chiedono soltanto un aiuto per vivere con dignità. L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele -che, per inciso, è ebreo- ha semplicemente fatto notare questa sproporzione. E come ha reagito un membro della Knesset, colono egli stesso, il nostro bullo? Ha risposto chiamandolo sprezzantemente un “ebreetto”.
Il governo non ha alcun piano per riavviare o avanzare nel processo di pace. Niente è più lontano dalle sue reali intenzioni. Gli Usa poi fanno sempre marcia indietro perché lì gli ebrei rappresentano un settore importante e allora subentrano considerazioni elettorali e politiche.
Quindi probabilmente nessun osservatore internazionale verrà nei territori e non ci sarà alcuna incriminazione di Israele per crimini di guerra al tribunale internazionale. La nostra stessa gente è diventata collaborazionista. La gente si limita a imitare in modo pappagallesco la linea del governo. Una volta alla radio ho sentito dare una notizia che sapevo non essere vera. Ho chiamato la responsabile delle news e lei mi ha detto: “Lo so, ma è questo che il capo vuole sia trasmesso”.
Il governo sta contribuendo all’escalation della situazione; anche Shimon Peres ne fa parte, condividendo la responsabilità collettiva per quanto sta accadendo. Ma il Partito laburista sa cosa vuole dire stare all’opposizione? Peres dice che, se fosse stato all’opposizione, avrebbe dovuto pregare i giornalisti per avere due righe nell’ultima pagina dei giornali. Uri Avnery però è sempre stato in parlamento, sempre all’opposizione -talvolta rappresentando lui solo l’opposizione. Se Peres si fosse chiamato fuori, la nostra situazione sarebbe stata più facile, più facile per le tante persone che vogliono preservare la propria umanità e non diventare dei collaboratori.
Io non ripongo molte speranze nella corte internazionale, proprio per quelle manipolazioni e conseguenti accuse di antisemitismo. Come nel caso della Germania che, pur con tutto il potere che detiene in Europa, non oserà mai confrontarsi con il governo di Israele. Il cancelliere Kohl è stato il rappresentante di Israele alle varie riunioni per l’Unione Europea. Tutto per un senso di colpa e angoscia, che viene cinicamente e sistematicamente manipolato.
Questo può cambiare se noi, gli israeliani che credono nella pace e nella giustizia, riusciamo a spiegare agli europei che ciò che sta accadendo è peggio dell’antisemitismo. Ogni singolo villaggio o città palestinesi sono diventati dei potenziali campi di detenzione. I palestinesi non possono viaggiare, le strade per loro sono chiuse. Loro parlano di demografia, di “minaccia demografica”, tutto per preparare il terreno per un “Grande disegno” di conquista e deportazione, come quello che Sharon ha cercato di attuare in Libano.
Benny Elon e Avigdor Lieberman, i ministri dell’estrema destra, ne parlano apertamente. Sharon li loda e parla di un “nostro diritto”, rispetto a entrambe le sponde del fiume Giordano, e della “generosità” che potrebbe dimostrare “rinunciando” a quella orientale.
Noi non abbiamo mai veramente capito cosa sia uno stato di legge, cosa significhi rispettare norme e regole. Prima del 1948 i nostri leader ritenevano meritevole rubare agli inglesi, e questa attitudine ha avuto modo di penetrare in profondità.
Noi cittadini dobbiamo organizzarci per protestare e far sentire la nostra voce. Altrimenti finiremo per essere dei paria del mondo, e ce lo saremo meritati. Noi qui rappresentiamo una parte della popolazione non irrilevante. Possiamo alzare la voce e protestare, possiamo metterci a manifestare coi picchetti. I media non potranno ignorarci per sempre. Non possiamo contare sulla corte internazionale o sulla comunità internazionale. Non possiamo, a meno che non riusciamo a richiamare la loro attenzione e a far loro ignorare il ricatto emotivo del rischio di essere chiamati antisemiti. Bisogna dire pane al pane. Il nostro governo si sta macchiando di crimini di guerra. Dobbiamo ripeterlo e ripeterlo. Come Catone il Censore non si stancava di ripetere la sua ammonizione. Ripeterlo senza tregua. È ora di preparare i dossier di questi crimini di guerra!
(tratto da La bandiera nera, ed. una città, 2002)
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