Ma noi uomini sappiamo “stare” con gli animali? Certo, il primo problema che ci tocca come uno scandalo è la loro sofferenza, soprattutto quando siamo proprio noi a provocarla. Ingiustificata, superflua, anche sadica. Dobbiamo, e forse col tempo riusciremo a produrre una nuova etica dei rapporti tra le specie, a riconoscere anche i diritti degli animali, ad avere coscienza della loro coscienza. Probabilmente a tutto questo ci guiderà, e duramente, proprio la consapevolezza insopportabile del dolore che patiscono. La compassione è la nostra prima comunicazione con il mondo degli animali, il nostro primo linguaggio. Del resto è sempre così: anche nella nostra storia umana, la nostra parola è sorta dal dolore; si parla per elaborare l’angoscia originaria. E la “com-passione” degli animali ci darà parole nuove. Il loro dolore può renderci più umani: per esempio riscoprendo la coscienza tragica dell’esistenza. Vivere comporta inevitabilmente patire e produrre violenza. Ricordiamo l’Ignoto di Spoon River che negli inferi avrebbe voluto incontrare il falcone che in vita ha ferito e raccolto in gabbia: “Ogni giorno io cerco nei regni dell’Ade/ l’anima del falcone/ per potergli offrire l’amicizia/ di uno che la vita ha ferito e messo in gabbia”.
C’è in questa consapevolezza della comune soggezione, dell’uomo e dell’animale, a un destino di sofferenza, quasi come una lieve consolazione che ci giustifica.
“Quando ucciderete un animale, ditegli in cuore: /”Dal medesimo potere che ti abbatte io pure sarò ucciso e consunto, poi che la legge che ti consegnò nelle mie mani, consegnerà me in mani più potenti”. Così Gibran Khalil, il profeta, ci ha insegnato del Mangiare. E non si tratta solo di sublimazioni poetiche: ricordo che quando mi trovavo in Senegal, quegli amici che più di noi vivono a contatto con la Vita universale, per naturale intuizione e secondo una cultura lungamente radicata nel popolo, proprio così avevano imparato a trattare gli animali. Temono lo spirito degli animali uccisi, ma non quando hanno ucciso per necessità. Nella loro più semplice autenticità hanno sempre avuto più rispetto di noi per gli animali e anche meno problemi; naturalità di un popolo: a volte le nostre complicazioni etiche rivelano soltanto la nostra cattiva coscienza. Impareremo, ma mettiamo pure in conto tempi lunghi (e gli inevitabili errori). E’ già qualcosa comunque che in questo cammino di civiltà anche in Italia si siano adottate recentemente le norme della CEE sulla vivisezione.
Eppure non ci si può limitare a legiferare su questi errori e nemmeno a provar pena per il dolore di ogni vivente. E’ una coscienza più ampia del nostro rapporto con gli animali che dovremmo scoprire: non è solo la loro morte che ci interroga; è la loro vita. Sappiamo “stare” con loro? Non dovremmo forse tentare anche una difficile uscita culturale dal nostro antropocentrismo? Senza cadere, possibilmente, in un reincanto del mondo, secondo la moda culturale nord-americana. Certo però che la domanda c’è ed è giusta: come possiamo stare con gli animali? E le risposte sono molte. Accoglienza dell’Altro diverso da noi. O invece scoperta dell’unità della Vita più radicale ancora della diversità delle sue forme. Oppure ancora coscienza religiosa di tutto il Creato. Uscire dall’antropocentrismo può essere una benedizione; amplificazione e ricchezza; purificazione dell’istinto del dominio e della violenza. Non è forse significativo che la buona novella cominci proprio raccontando di un Uomo nuovo che “stava con le fiere e gli angeli lo servivano”? Il ritorno della pace originaria. Ma dovremmo scendere dalla nostra presuntuosa arroganza di considerarci il centro e imparare dal nostro incontro col mondo degli animali a pensare al tutto: “Il libero animale/ ...dove noi abbiamo futuro lui invece vede il tutto,/ e in quel tutto se stesso e salvo sempre” (Rilke)
Sergio Sala