Il suo soprannome è "Black Eyes”. Ha 21 anni e ha aderito all’Esercito libero siriano dopo che le autorità avevano perso la pazienza con ragazzi come lui, che continuavano a manifestare per la libertà e la caduta del regime. "Allah, Siria, libertà e basta!”, cantavano, parafrasando il monito delle brigate del partito Baʿth ("Allah, Siria, Bashār e basta!”). Cammina per le vie del quartiere al-Mashhad con una pistola alla cintura. "Ho perso dieci tra i miei migliori amici, sei durante le manifestazioni pacifiche e quattro in battaglia”, spiega mentre sediamo sul bordo di un marciapiede grigio, di fronte a un edificio sventrato da un colpo di cannone delle forze del regime. I negozi del vicinato non hanno sedie a sufficienza per eventuali ospiti, anche se uno sgabello per il caffè ce lo trova il ragazzo delle falāfel, le polpette di farina di ceci con il sesamo. "Dopo quarant’anni di oppressione, la gente era disposta a tutto. Era una questione di liberazione dello spirito, di liberazione della voce”, aggiunge. Poi, d’improvviso: "Boum!”, un potente colpo di artiglieria si intromette nella nostra conversazione. Una scossa mi raddrizza la schiena, mentre "Black Eyes” non muove ciglio: sono i colpi che i ribelli tirano a intervalli regolari su un obiettivo militare del regime. "Come coordinatori delle manifestazioni, usavamo pagine Facebook con falsi nomi per contattare gli altri. Mandavamo un invito a qualcuno, se rispondeva positivamente, verificavamo la sua identità e lo inserivamo nella rete. Tra noi coordinatori, non ci conoscevamo per il vero nome”. "Erano sufficienti queste misure per proteggere la vostra identità?”, chiedo. "Certamente no. Dovevamo anche tutelare i nostri incontri. Annunciavamo ad esempio la riunione in un posto, e qualche minuto prima dell’appuntamento, davamo un indirizzo diverso. L’uso della posta elettronica o del telefono era molto pericoloso per le intercettazioni. Cambiavo il mio indirizzo email ogni mese. Per il telefono cellulare, chiedevamo ad un amico della società telefonica di registrare un nuovo numero di cellulare sotto il nome di qualcuno non sospetto, così non l’avrebbero messo sotto ascolto”. Entrato nella brigata al-Khāl all’inizio del 2012, lo zio materno vi è rimasto fino a quando l’Esercito libero è entrato ad Aleppo, nel mese di agosto, e ha preferito uscire per dedicarsi all’informazione. Pochi avevano un’esperienza di giornalismo online e fotografia, mentre lui portava sempre con sé un’arma e una macchina fotografica. "Black Eyes” si definisce un poeta naturale, pubblica i suoi versi rivoluzionari su Internet, è uno di quelli che scrive gli slogan delle marce, ma è anche uno studente di ingegneria. Così va la vita. Porta i capelli come un giovane Elvis Presley, ma Elvis Presley non aveva gli occhi neri.
Asrār as-Shām è una milizia di combattenti islamici che lottano per liberare il restante 40% della città di Aleppo ancora nelle mani del regime di al-Asad. Un uggioso giorno di pioggia, incontro uno di loro sul marciapiede, a tre minuti a piedi dalla linea del fronte. È vestito di nero dalla testa ai piedi. Anche le ciglia sono state annerite con la polvere al-Kohl. Sono con altri combattenti, ma per rispetto non gli rivolgo la parola perché mi è stato detto che non amano parlare con gli stranieri. Sostenitori dell’Esercito libero mi riferiscono che sovente non si coordinano con loro nelle operazioni militari, e questo comporta un costo maggiore in vite umane. "Tra i rivoluzionari, vi sono delle differenze tra chi vuole uno stato islamico e chi no, e non vi è coordinamento strategico tra Esercito libero e combattenti islamici. Ci si coordina in certe azioni di combattimento, ma niente di più”, mi spiegherà Mahmūd al-ʿArabī, l’ingegnere informatico che cura il sito Internet dell’Aleppo Press Center, creato da un gruppo di attivisti della città, e l’unica iniziativa dell’opposizione all’interno della Siria che produca notizie in arabo e inglese.
Sarà nei loro uffici, due appartamenti di un triste immobile, che verrò ospitato. Uno spazio che in cuor mio ribattezzerò "la tana”, dove ci si rifugia la sera e si vive la precarietà di Aleppo tra quattro mura: acqua e luce a singhiozzo, spazzatura accantonata, stoviglie sporche e latrine puzzolenti. "Noi non vogliamo uno stato islamico. Jabha an-Nusra, l’altra milizia di orientamento islamico, che raccoglie la maggioranza dei combattenti stranieri, è presente anche qui, raccoglie le simpatie di più della metà della popolazione dicendo che non rubano e che vogliono uno stato basato sulla Sharīʿa. È possibile che dopo la caduta del regime vi sia uno scontro interno”, aggiunge Mahmūd, mentre ceniamo con gli altri ragazzi del centro con un pollo allo spiedo, pane, ayran e patate, illuminati da candele di emergenza perché stanno aspettando il carburante per il generatore. Un’operativa dell’Esercito libero, palestinese nata e cresciuta ad Aleppo, metterà le mani avanti: "La Siria è un paese diverso, i siriani non accetteranno mai l’islamismo; la gente prega e digiuna, ma rifiuta le regole strette. Le brigate di Ahrār as-Shām sono state avvisate che alcuni combattenti non facevano la preghiera, li hanno messi agli arresti e li hanno costretti a pregare, ma questi hanno continuato a rifiutarsi. La religione deve essere libera”. È con lei, di cui non voglio svelare il nome, che mi ero imbattuto nel combattente di Ahrār as-Shām, ed è lei che mi ha fatto scoprire il delizioso riso al latte che i venditori ambulanti propongono in quelle vie solitarie e talvolta inquietanti.
Donne vestite di paltò e veli neri camminano da un negozio all’altro prima della caduta del sole; la pelle diafana del loro viso appare ancora più luminosa in quella cornice. A fianco del cavalcavia al-Hajj, si manifesta il paesaggio di una discarica lunare, che spinge i conducenti a premere l’acceleratore tanto quanto il pericolo degli snipers. Centinaia di piccoli sacchetti di plastica nera o di sudicio aspetto emanano un odore puzzolente e velenoso, quasi fosse una bile di rabbia, perché l’umido inverno li fa morire di agonia, tra segnali di fumo che non bruciano, né si estinguono. Come i fantasmi di questa città, piangono perché non hanno ricevuto adeguata sepoltura. È anche il caso di quei centoquindici corpi che il fiume Qwayq ha restituito alla città qualche giorno fa. Fangose, grigiastre, tragiche maschere di giovani e vecchi con il cranio aperto o i bulbi oculari trapassati, che erano stati giustiziati alla periferia di Aleppo.
"Ryan”, un altro soprannome di battaglia, ha scattato una fototessera di ognuno di loro. All’inizio di tutto, quando la rivoluzione guadagnava terreno nelle vie della città in modo pacifico, "Ryan” era uno dei giovani più ricercati, il cervello del movimento di protesta locale, sfuggito a tre tentativi di arresto. "Ho fondato il coordinamento Ahrār Halab as-Shahbā’, i liberi grigi di Aleppo (Aleppo viene chiamata la "Città grigia” perché secondo la tradizione Abramo piantò la tenda dove ora sorge la Cittadella e vi munse una mucca grigia, nda). Con questo nome, abbiamo organizzato le prime manifestazioni nel quartiere di Bustān al-Qasr e abbiamo formato altri gruppi. Abbiamo creato un vero e proprio consiglio operativo: chi si occupava degli aspetti logistici, chi dell’impianto audio, chi dei manifesti e dell’informazione, chi della ricognizione dei luoghi. Erano questi i Kasshāfa, perché la scelta dei punti di concentramento era molto delicata”, spiega "Rayan”. "Per catturarmi, hanno infiltrato una spia nel coordinamento e mi hanno teso un’imboscata. Un ufficiale si è presentato alla riunione e mi ha fermato, io ho avuto la prontezza di dargli un pugno e scappare, e gli agenti che mi inseguivano gridavano: ‘Al ladro, al ladro’. Non potevano certo dire che mi braccavano perché manifestavo per la libertà!”.
Un instancabile attivista, ex-campione nazionale di judo, dirige ora la polizia civile di Bustān al-Qasr e si occupa dei problemi del suo quartiere liberato: raccolta dei rifiuti, lezioni a scuola, attività per i bambini o processioni in onore dei martiri. È un instancabile gatto dalle nove vite: "Guardami, zoppico perché mi hanno sparato alle gambe sei mesi fa e, nonostante il dolore, dopo una sola settimana ero già fuori a manifestare”, dice. La localizzazione del suo ufficio è sconosciuta ai più. Assomiglia a una stazione radio, con pareti imbottite ricoperte di finta pella nera, che si raggiunge penetrando attraverso una porta dimessa e oscura, in una via fuori mano.
Umm Jaʿfar, al contrario, ha imparato a rispondere al fuoco col fuoco. A soli 22 anni, è una sniper, una tiratrice orgogliosa, e dirige la sezione femminile della brigata Sawt al-Haqq, la Voce della giustizia. Sono sette angeli della morte dal gentil sesso; nero è il suo foulard e neri sono i pantaloni, ma lei sorride perché la figlia di quattro anni le sta accanto, seduta sul sofà di casa. "Mio padre sosteneva il regime e quando ha saputo che parteggiavo per la rivoluzione mi ha picchiato. Io sono scappata e ora cerca di sequestrarmi”. Poi, per poter imbracciare il fucile, un SSG della Steyr, ha dovuto affrontare il marito, che è il capo della brigata, ma alla fine lui ha ceduto. Lui e lei sono stati tra i primi a procurarsi le armi per proteggere le manifestazioni, e si sono preparati ad accogliere l’ingresso dell’Esercito libero in città. Umm Jaʿfar non mira solo sui soldati, fa da mangiare ai combattenti, ne lucida i fucili, o lava le camicie; insomma, come al solito, lavora più di un uomo. "Perché una donna sul fronte?”. "Perché i soldati sovente esitano prima di sparare a una donna, tentennano. E noi dobbiamo approfittare di quel tentennamento”, aggiungerà un combattente amico di famiglia. Le aree liberate di Aleppo sono state escluse dalla rete elettrica da quattro mesi. Niente frigoriferi, niente riscaldamento, niente lampade. Poca luce artificiale, a meno che tu non abbia un generatore, e che ti possa procurare il combustibile sul mercato nero. È buio nei quartieri. L’oscurità è il colore di Aleppo, del caffè servito sulla strada da vecchie macchine espresso italiane, alimentate con bombole a gas. Ombrose sono le vie durante il giorno, quando un cielo plumbeo riflette la polvere delle tende, che nascondono i balconi, e l’opaca uniformità di saracinesche chiuse. Tenebrosa è la notte di Aleppo, dove i soli frammenti di luce che incroci provengono dalle torce, a meno che non ti voglia avventurare sulla linea del fronte, situata tra un isolato e l’altro; là, vedrai la luce delle sigarette accese e quella dei colpi di arma da fuoco.
Il dottore ʿOthmān al-Hajj sa cosa sia una notte nera. "Ho curato così tanti feriti, giorno e notte, che non posso contarne il numero”, dice. Quando l’Esercito libero è entrato in città, nel luglio del 2012, è stata una battaglia sanguinosa. In una sola ora, durante un bombardamento vi sono stati 235 feriti, di cui 70 sono morti. "La cosa più difficile per me è stata di esaminare sul terreno i corpi estratti e portati dall’Esercito libero, senza sapere se fossero veramente morti o svenuti, perché non c’era tempo e mi ripetevano: ‘Questo è morto, portalo via; questo è morto, portalo fuori’. Mi ricordo del signor Khaddūr, che ha perso sei membri della sua famiglia in un solo colpo. È rimasto con la figlia di sei mesi”. Ora ʿOthmān cura in un piccolo ospedale ribattezzato Dār as-Shafā’, dopo che l’originale è stato bombardato e distrutto dalle forze del regime. Mentre i suoi assistenti curano un bambino portando lampade da testa, in un’improvvisata saletta di pronto soccorso, il dottore apre il cassetto della scrivania e tira fuori due candele. La luce è saltata e queste basteranno ad illuminare l’oscurità di Aleppo per qualche minuto. Mi sarà sufficiente scendere all’ospedale az-Zarzūr, tre giorni più tardi, per assistere all’arrivo forsennato di combattenti feriti su mezzi di fortuna, in un momento particolarmente aspro degli scontri a Sheick Saʿīd, e al decesso di uno di loro. "Allah akbar, Allah akbar, Dio è grande”, gridavano gli altri combattenti, che spostavano barelle, portavano i feriti dentro all’ospedale e chiedevano di non fotografare, mentre a pochi metri potevi vedere lo sventramento tra le case causato da un missile qualche giorno prima, che aveva provocato la morte di trenta civili. Forse l’ospedale az-Zarzūr era il vero bersaglio.
Le ragioni per disperare sono numerose, ma i giovani non hanno paura della morte. Yazan Sabbāgh, che grazie a un’operazione organizzata dall’Esercito libero è riuscito a disertare, è fiducioso nell’aiuto di Dio "perché questo regime è assassino”. "Vinceremo, certo”, mi diceva "Rayan”, "ma noi attivisti non siamo stupidi, sappiamo che l’Occidente vuole una guerra lunga, perché vuole la fine della capacità militare della Siria per la sicurezza di Israele, e una lunga guerra civile indebolirà la Siria”. La mattina del mio ultimo giorno in città, scendo in strada con il fotografo ungherese Istva’n Bielik per prendere un caffè espresso dal siriano. La sua spiegazione di come miscela caffè torrefatto leggero con forte, per rendere la bevanda più gradevole, riscalda gli animi all’inizio di una giornata fredda. Nel suo botteghino ha tre sacchi di caffè brasiliano di torrefazione diversa. Ci spiega la stagione meteorologica e rifiuta che paghiamo. Vuole conversare come se fossimo in un normale venerdì di festa, ma i negozi che possono aprire hanno già aperto, perché non è questo un tempo di festa. "Sono contro la violenza, sono contro la corruzione, sono contro la divisione. Spero che la situazione torni tranquilla, perché la vera immagine di Aleppo non è quella di questa morta città”, dice sorridendo. "Welcom to Hell”, senza la "e”, recita un piccolo graffito posto sullo stipite di una porta, vicino ai nostri appartamenti. Prima di partire, compro molte saponette di olio d’oliva da portare a casa. Sarà il mio modo di lavarmi dentro.
8 febbraio 2013
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