Una Città n° 267 / 2020
Sulla cima di una collina delimitata dai fiumi Tamanduateí (nella lingua Tupi, fiume dei veri formichieri) e Anhangabaú (nella stessa lingua: fiume del maleficio, o del diavolo), dove si trova oggi il Patio del Collegio, nel 1554 i sacerdoti della Compagnia di Gesù fondarono il collegio San Paolo di Piratininga. La fondazione fu consacrata da una messa concelebrata da Manuel da Nobrega e José de Anchieta.
Il piccolo insediamento di case attorno al Collegio divenne presto il villaggio di San Paolo, embrione della città subito eletta a sede delle Spedizioni Bandeiras: lo spregiudicato motore commerciale dello sviluppo territoriale brasiliano.
A 466 anni dalla sua fondazione, San Paolo è oggi, non solo la più grande città del Brasile, abitata da circa 12 milioni di persone, ma anche la sua locomotiva economica e culturale, punto di convergenza di immigrati provenienti da varie regioni del paese e del mondo. Come molte grandi metropoli, San Paolo è afflitta da grandi tensioni sociali.
Malgrado il Brasile sia classificato dal Fondo monetario internazionale come una delle maggiori economie mondiali, resta uno dei paesi a più alta disuguaglianza sociale per concentrazione del reddito, stando alle conclusioni del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo dal 2017 al 2019.
Questo scenario si può osservare nelle strade della megalopoli.
Nel censimento realizzato nel 2015, la Prefettura del Municipio di San Paolo certificò l’esistenza di 15.905 senzatetto. Va detto che il 52,7% di queste persone, delle quali l’82% di sesso maschile, si trova nella zona centrale. Nel 2019 il numero dei senzatetto è salito a 24.344 persone.
A causa della pandemia di Sars-CoV-2 (Covid-19), il Brasile è uno dei paesi più contagiati; in uno scenario economico e sociale già desolante, sarà inevitabile un grave peggioramento.
Ludovico Nitoglia
Ho un ricordo molto nitido. Avevo più o meno 14 anni quando vidi un uomo che si puliva sotto un ponte di Roma dopo aver fatto i suoi bisogni.
Era robusto, con una pancia prominente, la barba incolta e brizzolata e con una striscia di capelli neri, lunga, sporca e sottile che faceva il giro della testa. Senza camicia, con i pantaloni ancora abbassati, teneva in una mano fogli di giornale e con l’altra improvvisava una qualche forma di igiene. Mi ricordo che tirava un vento forte e che vari pezzi di giornale volarono in direzione del lungotevere, come al solito denso di traffico. Osservavo la scena da una delle macchine che passava di là. I passanti guardavano con sdegno o comunque disappunto.
Col tempo sono arrivato a capire che ciò che più mi disturbava non era tanto l’immagine di un essere umano nudo in mezzo alla città, quanto piuttosto la reazione dei passanti: l’espressione delle persone indignate e impassibili. Comprendevo la loro sorpresa e anche il loro imbarazzo, ma non arrivavo a capire l’indifferenza per ciò che quell’uomo -come era evidente- doveva affrontare ogni giorno.
Oggi, quando cammino per le strade di San Paolo, ho una forte attrazione per queste persone che vivono ai margini della società, per le loro storie, per il modo in cui abbracciano la strada.
Fotografare questi uomini è prima di tutto avvicinarsi a loro, creare un legame. Ascoltare, provare a essere ascoltati. Dopo, forse, riesco a registrare nella foto qualche momento di questo scambio... forse.
Ho riscontrato due generi di homeless: quelli che vivono in piccoli gruppi o comunità (che normalmente si concentrano in luoghi pubblici come piazze, stazioni di autobus e della metropolitana) e quelli che vivono isolati.
Tutti dormono in baracche o sui marciapiedi: sdraiati su materassi, cartoni, incerate o sacchi di plastica; le cause dell’allontanamento dalla società sono, fra le più comuni, i conflitti familiari, la disoccupazione, incidenti sul lavoro, droga, alcol, prigione, malattie e depressione (che spesso accompagna o genera tutte le altre).
I senzatetto che ho conosciuto vivono da soli, lontani dai locali pubblici. Uomini, donne, vecchi, giovani: la grande maggioranza staziona in strada in maniera permanente, in condizioni di povertà assoluta, mendicando o aiutati da associazioni di beneficenza. Alcuni stanno nello stesso posto da parecchi anni. Solo un provvedimento del giudice o l’intervento delle forze dell’ordine li obbliga ad andarsene. Altri vivono spostandosi rapidamente, fermandosi due o tre giorni sullo stesso marciapiede per poi allontanarsi e svanire senza lasciare traccia. Di questi ultimi la maggior parte sono riciclatori di spazzatura (catadores de lixo, come vengono chiamati in Brasile). Con le loro carrette attraversano gran parte della città raccogliendo cartone, metallo, plastica, ferro, che poi portano nei punti di raccolta per guadagnare una miseria rispetto all’immensa fatica che quel lavoro gli costa (e al benefico che la città ne ricava). L’isolamento sociale e i pregiudizi sono uno dei motivi che li rendono invisibili. La maggior parte di loro è estremamente comunicativa con chi gli si avvicina. Raccontarsi è una forma di liberazione, come se parlare togliesse loro il peso del pregiudizio.
Mi hanno raccontato dei problemi che hanno dovuto affrontare, specialmente con altri senzatetto, tra furti e rapine; delle loro disgrazie, sfortune; di Dio e di Gesù. Gesù... è stato il nome più ripetuto.
La fede è uno degli aspetti caratterizzanti del popolo brasiliano e i senzatetto non fanno eccezione. Molti di loro partecipano alle funzioni religiose, portano con sé la Bibbia, comunicano citando versetti, aprono e chiudono i saluti dando la benedizione del Padre Altissimo. C’è anche chi si libera dall’ortodossia e professa una “religiosità privata”, modellata secondo le proprie esigenze: il sincretismo è un nuovo concetto di fede, ed è molto sviluppato in un paese in cui varie etnie consegnano un pezzo della loro cultura sacra. Religione e povertà vivono insieme e sono interdipendenti tra loro creando un contrasto sorprendente. Un poeta ha detto che “la religione è forte come il contrasto che genera, soppesare queste vite e confrontarle con le parole religiose è così vero e vivo che è possibile capire l’uomo come immagine dell'umanità nel suo insieme”.
Dárcio, che vive sul marciapiede nell’avenida Engenheiro Alberto de Zagottis, nella zona di Santo Amaro, frequenta varie funzioni religiose e le messe. La parola di Dio lo fa sentire bene, in pace, lontano dalle sue crisi depressive; e i banchetti offerti a fine messa confortano il suo stomaco. È scappato di casa, sta cercando lavoro, vive con Vilma vicino al muro di una impresa commerciale. Vilma aspetta un bambino, è al sesto mese di gravidanza.
Come Dárcio, altri senzatetto mi hanno parlato dell’importanza di credere in qualcosa di spirituale che dia un significato alla vita di sofferenze che affrontano ogni giorno. Forse è per questo che ho trovato nelle figure stanche, rugose, abbattute e marcate, occhi vivi di speranza. E non gli mancava mai il sorriso, come pure l’eterno ringraziamento al Padre.
Mi rendo conto che è improbabile che con il nostro racconto si riesca a cambiare la vita delle persone che fotografiamo, le loro condizioni sociali, di miseria o fisico-mentali che li accompagnano.
Tuttavia, esiste la possibilità che le immagini entrino nella curiosità di chi le osserva e che possano allontanare la distanza tra l’osservato e l’osservatore, per suggerire elementi di comunione.
Gabriel Rizaffi
Attraversavo, con la macchina fotografica appesa al collo, il punto zero del centro della città di San Paolo verso la cattedrale metropolitana -affettuosamente nominata dagli abitanti come cattedrale Sé- per visitare la sua cripta, quando vengo improvvisamente avvicinato da Simone in compagnia di Guará, due degli innumerevoli abitanti della piazza Sé.
Si tratta di un gruppo eterogeneo che passa completamente inosservato agli occhi di chi si muove nel vecchio centro. A causa delle crisi politico-sociali e del rallentamento dell’economia brasiliana, c’è stato un aumento significativo delle persone che vivono sempre al di sotto della soglia di povertà e che occupano le strade di San Paolo.
Simone, guardando la mia macchina fotografica, mi ha chiesto una foto. Non ho ci pensato un momento. Ho accettato subito.
Dopo una breve conversazione, ci siamo salutati e ho promesso di portarle una stampa della fotografia. Del resto, se l'immagine rimanesse nei miei archivi e non “arrivasse” alle persone, soprattutto quelle che ho ritratto, sarebbe inutile.
Nel corso del tempo ho deciso non solo di consegnare la fotografia, ma di ritrarre la routine, le attività e la miserabile situazione degli abitanti di piazza Sé, in tutti i periodi della giornata, tra i mesi di agosto e novembre 2018.
Piazza Sé è un luogo di circa 47 mila metri quadrati attraversato da un gran numero di persone delle più diverse etnie e provenienze: passanti, studenti, senzatetto, tossicodipendenti (e spacciatori di droga), turisti, commercianti (veri e abusivi), pastori evangelici, polizia, escort, giudici, avvocati, dipendenti pubblici, sacerdoti...
Le persone che vivono in piazza Sé sono divise in gruppi chiamati maloca (con riferimento al tipo di capanna comunitaria usata dalla gente della regione amazzonica). I suoi abitanti non vanno in altre zone della città già occupate da altri senzatetto, in particolare nel quartiere di Luz e nel quartiere degradato di Cracolandia. Oltre a una strisciante rivalità, esiste una divisione spontanea dello spazio pubblico, regolata dal territorio, dal livello di igiene, dall’uso di una droga particolare o dal grado di pericolo dell’individuo.
Quindi si può dire che i maloca sono cellule primordiali di gruppi sociali che stabiliscono reciprocamente regole di coabitazione, soprattutto la divisione del cibo, che caratterizzano gli abitanti di piazza Sé.
Ma la convivenza non è sempre armoniosa. In realtà, ci sono continue segnalazioni di liti, minacce, furti e persino pugnalate tra i membri della maloca.
Come un essere vivente, la maloca è itinerante. Di notte, sotto la protezione di una tettoia, tende e materassi convergono alla fine di piazza João Mendes, all’angolo di Strada della Gloria, una famosa roccaforte giapponese nella città di San Paolo, con le sue tipiche lanterne attaccate ai pali rossi che attraversando la strada pubblica dagli anni Settanta. I materassi logori sono allungati sul marciapiede e usano le finestre vetrate di un’agenzia della banca statale come capezzale. Le fioriere diventano comodini in cui sono depositati gli oggetti dei senzatetto. I carrelli del supermercato si trasformano in armadi e guardaroba mobili, pieni di beni personali e collettivi: vestiti, padelle, coperte, generi alimentari, prodotti per l’igiene, alimenti per animali... Con l’arrivo del giorno o dei dipendenti della filiale bancaria, la maloca si trasferisce nel cuore della piazza Sé, dove resta fino al tramonto.
Accettato dai membri della maloca, sono entrato, in modo sempre riservato, non solo nelle loro “case”, ma nelle loro intimità, avendo cura di rispettarne al massimo la riservatezza (spesso anche a causa dei loro precedenti penali).
Ho iniziato a fotografare la routine e le condizioni della miseria in cui vivono.
Mi sono reso conto che la vita era governata da litri di cachaça di pessima qualità (come di marijuana e cocaina), indipendentemente dall’ora del giorno, e che i cicli di permanenza dei membri della maloca sono talvolta estremamente brevi.
Guará è stato arrestato in flagrante per traffico di droga. Simone si è innamorata ed è partita per una destinazione ignota. Alcuni hanno lasciato la capanna per soluzioni più comode. Altri sono tornati a casa con gli occhi pieni di lacrime e hanno chiesto perdono ai loro cari abbandonati. Allo stesso modo, sono arrivati nuovi occupanti, a raccontare e a vivere le proprie storie.
Come organismo sociale, credo che la maloca difficilmente potrà esaurirsi, considerato in particolare l’aumento delle persone che finiscono per strada.
A piazza Sé presente, passato e futuro sono dimenticati. La dignità è cancellata dalla trascuratezza familiare, sociale e statale; l’abbandono raffinato con un pizzico di auto-segregazione e penitenza.
Vita latente, morte imminente, stato di povertà: tutto passa inosservato nel cuore di San Paolo.
(testo e foto di Ludovico Nitoglia
e Gabriel Rizaffi)
Senzatetto
Ludovico Nitoglia, Gabriel Rizaffi - San PaoloSulla cima di una collina delimitata dai fiumi Tamanduateí (nella lingua Tupi, fiume dei veri formichieri) e Anhangabaú (nella stessa lingua: fiume del maleficio, o del diavolo), dove si trova oggi il Patio del Collegio, nel 1554 i sacerdoti della Compagnia di Gesù fondarono il collegio San Paolo di Piratininga. La fondazione fu consacrata da una messa concelebrata da Manuel da Nobrega e José de Anchieta.
Il piccolo insediamento di case attorno al Collegio divenne presto il villaggio di San Paolo, embrione della città subito eletta a sede delle Spedizioni Bandeiras: lo spregiudicato motore commerciale dello sviluppo territoriale brasiliano.
A 466 anni dalla sua fondazione, San Paolo è oggi, non solo la più grande città del Brasile, abitata da circa 12 milioni di persone, ma anche la sua locomotiva economica e culturale, punto di convergenza di immigrati provenienti da varie regioni del paese e del mondo. Come molte grandi metropoli, San Paolo è afflitta da grandi tensioni sociali.
Malgrado il Brasile sia classificato dal Fondo monetario internazionale come una delle maggiori economie mondiali, resta uno dei paesi a più alta disuguaglianza sociale per concentrazione del reddito, stando alle conclusioni del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo dal 2017 al 2019.
Questo scenario si può osservare nelle strade della megalopoli.
Nel censimento realizzato nel 2015, la Prefettura del Municipio di San Paolo certificò l’esistenza di 15.905 senzatetto. Va detto che il 52,7% di queste persone, delle quali l’82% di sesso maschile, si trova nella zona centrale. Nel 2019 il numero dei senzatetto è salito a 24.344 persone.
A causa della pandemia di Sars-CoV-2 (Covid-19), il Brasile è uno dei paesi più contagiati; in uno scenario economico e sociale già desolante, sarà inevitabile un grave peggioramento.
Ludovico Nitoglia
Ho un ricordo molto nitido. Avevo più o meno 14 anni quando vidi un uomo che si puliva sotto un ponte di Roma dopo aver fatto i suoi bisogni.
Era robusto, con una pancia prominente, la barba incolta e brizzolata e con una striscia di capelli neri, lunga, sporca e sottile che faceva il giro della testa. Senza camicia, con i pantaloni ancora abbassati, teneva in una mano fogli di giornale e con l’altra improvvisava una qualche forma di igiene. Mi ricordo che tirava un vento forte e che vari pezzi di giornale volarono in direzione del lungotevere, come al solito denso di traffico. Osservavo la scena da una delle macchine che passava di là. I passanti guardavano con sdegno o comunque disappunto.
Col tempo sono arrivato a capire che ciò che più mi disturbava non era tanto l’immagine di un essere umano nudo in mezzo alla città, quanto piuttosto la reazione dei passanti: l’espressione delle persone indignate e impassibili. Comprendevo la loro sorpresa e anche il loro imbarazzo, ma non arrivavo a capire l’indifferenza per ciò che quell’uomo -come era evidente- doveva affrontare ogni giorno.
Oggi, quando cammino per le strade di San Paolo, ho una forte attrazione per queste persone che vivono ai margini della società, per le loro storie, per il modo in cui abbracciano la strada.
Fotografare questi uomini è prima di tutto avvicinarsi a loro, creare un legame. Ascoltare, provare a essere ascoltati. Dopo, forse, riesco a registrare nella foto qualche momento di questo scambio... forse.
Ho riscontrato due generi di homeless: quelli che vivono in piccoli gruppi o comunità (che normalmente si concentrano in luoghi pubblici come piazze, stazioni di autobus e della metropolitana) e quelli che vivono isolati.
Tutti dormono in baracche o sui marciapiedi: sdraiati su materassi, cartoni, incerate o sacchi di plastica; le cause dell’allontanamento dalla società sono, fra le più comuni, i conflitti familiari, la disoccupazione, incidenti sul lavoro, droga, alcol, prigione, malattie e depressione (che spesso accompagna o genera tutte le altre).
I senzatetto che ho conosciuto vivono da soli, lontani dai locali pubblici. Uomini, donne, vecchi, giovani: la grande maggioranza staziona in strada in maniera permanente, in condizioni di povertà assoluta, mendicando o aiutati da associazioni di beneficenza. Alcuni stanno nello stesso posto da parecchi anni. Solo un provvedimento del giudice o l’intervento delle forze dell’ordine li obbliga ad andarsene. Altri vivono spostandosi rapidamente, fermandosi due o tre giorni sullo stesso marciapiede per poi allontanarsi e svanire senza lasciare traccia. Di questi ultimi la maggior parte sono riciclatori di spazzatura (catadores de lixo, come vengono chiamati in Brasile). Con le loro carrette attraversano gran parte della città raccogliendo cartone, metallo, plastica, ferro, che poi portano nei punti di raccolta per guadagnare una miseria rispetto all’immensa fatica che quel lavoro gli costa (e al benefico che la città ne ricava). L’isolamento sociale e i pregiudizi sono uno dei motivi che li rendono invisibili. La maggior parte di loro è estremamente comunicativa con chi gli si avvicina. Raccontarsi è una forma di liberazione, come se parlare togliesse loro il peso del pregiudizio.
Mi hanno raccontato dei problemi che hanno dovuto affrontare, specialmente con altri senzatetto, tra furti e rapine; delle loro disgrazie, sfortune; di Dio e di Gesù. Gesù... è stato il nome più ripetuto.
La fede è uno degli aspetti caratterizzanti del popolo brasiliano e i senzatetto non fanno eccezione. Molti di loro partecipano alle funzioni religiose, portano con sé la Bibbia, comunicano citando versetti, aprono e chiudono i saluti dando la benedizione del Padre Altissimo. C’è anche chi si libera dall’ortodossia e professa una “religiosità privata”, modellata secondo le proprie esigenze: il sincretismo è un nuovo concetto di fede, ed è molto sviluppato in un paese in cui varie etnie consegnano un pezzo della loro cultura sacra. Religione e povertà vivono insieme e sono interdipendenti tra loro creando un contrasto sorprendente. Un poeta ha detto che “la religione è forte come il contrasto che genera, soppesare queste vite e confrontarle con le parole religiose è così vero e vivo che è possibile capire l’uomo come immagine dell'umanità nel suo insieme”.
Dárcio, che vive sul marciapiede nell’avenida Engenheiro Alberto de Zagottis, nella zona di Santo Amaro, frequenta varie funzioni religiose e le messe. La parola di Dio lo fa sentire bene, in pace, lontano dalle sue crisi depressive; e i banchetti offerti a fine messa confortano il suo stomaco. È scappato di casa, sta cercando lavoro, vive con Vilma vicino al muro di una impresa commerciale. Vilma aspetta un bambino, è al sesto mese di gravidanza.
Come Dárcio, altri senzatetto mi hanno parlato dell’importanza di credere in qualcosa di spirituale che dia un significato alla vita di sofferenze che affrontano ogni giorno. Forse è per questo che ho trovato nelle figure stanche, rugose, abbattute e marcate, occhi vivi di speranza. E non gli mancava mai il sorriso, come pure l’eterno ringraziamento al Padre.
Mi rendo conto che è improbabile che con il nostro racconto si riesca a cambiare la vita delle persone che fotografiamo, le loro condizioni sociali, di miseria o fisico-mentali che li accompagnano.
Tuttavia, esiste la possibilità che le immagini entrino nella curiosità di chi le osserva e che possano allontanare la distanza tra l’osservato e l’osservatore, per suggerire elementi di comunione.
Gabriel Rizaffi
Attraversavo, con la macchina fotografica appesa al collo, il punto zero del centro della città di San Paolo verso la cattedrale metropolitana -affettuosamente nominata dagli abitanti come cattedrale Sé- per visitare la sua cripta, quando vengo improvvisamente avvicinato da Simone in compagnia di Guará, due degli innumerevoli abitanti della piazza Sé.
Si tratta di un gruppo eterogeneo che passa completamente inosservato agli occhi di chi si muove nel vecchio centro. A causa delle crisi politico-sociali e del rallentamento dell’economia brasiliana, c’è stato un aumento significativo delle persone che vivono sempre al di sotto della soglia di povertà e che occupano le strade di San Paolo.
Simone, guardando la mia macchina fotografica, mi ha chiesto una foto. Non ho ci pensato un momento. Ho accettato subito.
Dopo una breve conversazione, ci siamo salutati e ho promesso di portarle una stampa della fotografia. Del resto, se l'immagine rimanesse nei miei archivi e non “arrivasse” alle persone, soprattutto quelle che ho ritratto, sarebbe inutile.
Nel corso del tempo ho deciso non solo di consegnare la fotografia, ma di ritrarre la routine, le attività e la miserabile situazione degli abitanti di piazza Sé, in tutti i periodi della giornata, tra i mesi di agosto e novembre 2018.
Piazza Sé è un luogo di circa 47 mila metri quadrati attraversato da un gran numero di persone delle più diverse etnie e provenienze: passanti, studenti, senzatetto, tossicodipendenti (e spacciatori di droga), turisti, commercianti (veri e abusivi), pastori evangelici, polizia, escort, giudici, avvocati, dipendenti pubblici, sacerdoti...
Le persone che vivono in piazza Sé sono divise in gruppi chiamati maloca (con riferimento al tipo di capanna comunitaria usata dalla gente della regione amazzonica). I suoi abitanti non vanno in altre zone della città già occupate da altri senzatetto, in particolare nel quartiere di Luz e nel quartiere degradato di Cracolandia. Oltre a una strisciante rivalità, esiste una divisione spontanea dello spazio pubblico, regolata dal territorio, dal livello di igiene, dall’uso di una droga particolare o dal grado di pericolo dell’individuo.
Quindi si può dire che i maloca sono cellule primordiali di gruppi sociali che stabiliscono reciprocamente regole di coabitazione, soprattutto la divisione del cibo, che caratterizzano gli abitanti di piazza Sé.
Ma la convivenza non è sempre armoniosa. In realtà, ci sono continue segnalazioni di liti, minacce, furti e persino pugnalate tra i membri della maloca.
Come un essere vivente, la maloca è itinerante. Di notte, sotto la protezione di una tettoia, tende e materassi convergono alla fine di piazza João Mendes, all’angolo di Strada della Gloria, una famosa roccaforte giapponese nella città di San Paolo, con le sue tipiche lanterne attaccate ai pali rossi che attraversando la strada pubblica dagli anni Settanta. I materassi logori sono allungati sul marciapiede e usano le finestre vetrate di un’agenzia della banca statale come capezzale. Le fioriere diventano comodini in cui sono depositati gli oggetti dei senzatetto. I carrelli del supermercato si trasformano in armadi e guardaroba mobili, pieni di beni personali e collettivi: vestiti, padelle, coperte, generi alimentari, prodotti per l’igiene, alimenti per animali... Con l’arrivo del giorno o dei dipendenti della filiale bancaria, la maloca si trasferisce nel cuore della piazza Sé, dove resta fino al tramonto.
Accettato dai membri della maloca, sono entrato, in modo sempre riservato, non solo nelle loro “case”, ma nelle loro intimità, avendo cura di rispettarne al massimo la riservatezza (spesso anche a causa dei loro precedenti penali).
Ho iniziato a fotografare la routine e le condizioni della miseria in cui vivono.
Mi sono reso conto che la vita era governata da litri di cachaça di pessima qualità (come di marijuana e cocaina), indipendentemente dall’ora del giorno, e che i cicli di permanenza dei membri della maloca sono talvolta estremamente brevi.
Guará è stato arrestato in flagrante per traffico di droga. Simone si è innamorata ed è partita per una destinazione ignota. Alcuni hanno lasciato la capanna per soluzioni più comode. Altri sono tornati a casa con gli occhi pieni di lacrime e hanno chiesto perdono ai loro cari abbandonati. Allo stesso modo, sono arrivati nuovi occupanti, a raccontare e a vivere le proprie storie.
Come organismo sociale, credo che la maloca difficilmente potrà esaurirsi, considerato in particolare l’aumento delle persone che finiscono per strada.
A piazza Sé presente, passato e futuro sono dimenticati. La dignità è cancellata dalla trascuratezza familiare, sociale e statale; l’abbandono raffinato con un pizzico di auto-segregazione e penitenza.
Vita latente, morte imminente, stato di povertà: tutto passa inosservato nel cuore di San Paolo.
(testo e foto di Ludovico Nitoglia
e Gabriel Rizaffi)