Lei ha iniziato a lavorare nell’ambito della pubblica amministrazione ai tempi dell’emergenza del dopo terremoto. Che esperienza ne ha ricavato?
Dopo una laurea in Sociologia, presa nell’82 con una tesi sulle organizzazioni pubbliche, ho iniziato a lavorare presso il Commissariato Straordinario di governo nato dopo il terremoto del 1980 per la gestione del processo di ricostruzione a Napoli; un ente con poteri straordinari, molti fondi, strutture tecniche agili, un modello organizzativo anche interessante, perché si lavorava insieme con gli enti concessionari della ricostruzione. Nel frattempo era stata avviata anche un’operazione di riqualificazione urbana delle periferie, nell’ambito di un programma straordinario di edilizia residenziale e pubblica, che prevedeva la costruzione di 20.000 alloggi, in parte per il bisogno che si era creato dopo il terremoto e in parte per rispondere ai bisogni storici della città di Napoli, da tempo angustiata da un’ampia fascia di senzatetto e di abitanti in case inadeguate. Così dall’83 ho lavorato in quest’ufficio che assegnava le case in base a un bando di concorso cui parteciparono ben 80.000 famiglie.
Ecco, l’esperienza è stata particolarmente istruttiva perché, da sociologa frustrata -che anziché studiarla, la cosa la dovevo fare- mi ha permesso di riflettere sullo scarto incredibile che c’era tra quest’idea del bisogno, gestita con strumenti giuridici e procedure amministrative, e la situazione reale. Anche proprio dalle carte, emergeva infatti che situazioni pure di grave bisogno poi non si incanalavano bene in questi criteri. Così questo apparato, molto scientifico, organizzato bene, iniziò a incepparsi nella fase successiva, quella della vera e propria assegnazione, dove il farsi divenne più frenetico.
Quali erano i problemi maggiori, le graduatorie, la ricerca del consenso?
Le graduatorie, innanzitutto. Di fatto oggi non credo più alle graduatorie come strumento di gestione di questi processi. Questa è stata la mia esperienza: chi era primo in graduatoria magari non occupava già più il container, e comunque se ci fossimo occupati solo di coloro che, anche giustamente, erano in graduatoria, i campi container non sarebbero mai stati smantellati. Emerse quindi la necessità di una normativa semplificata, in grado di affrontare la questione in modo rapido. Una scelta, tutto sommato, lungimirante, perché altrimenti il campo avrebbe avuto vita eterna, come è successo altrove. Anche se poi l’urgenza, l’emergenza, la fretta ci costrinsero a operazioni delicate, come ricevere assieme tutte le famiglie di un campo per dire loro, a seconda della disponibilità degli alloggi: “Tu vai qua, tu vai là…”. Allora però -cosa rara- avevamo un buon dirigente, che ci disse: “abbinamenti, controlli e consenso”.
Quindi si tentò di fare quest’operazione con il consenso. Del resto, non era difficile estorcere il consenso a una popolazione di disperati privi di ogni rappresentanza collettiva e quindi di potere negoziale. Solo che appena finiva la riunione collettiva, ricordo che ti stringevano in un angolo per dirti: “Sì, ma io ho bisogno dell’alloggio al secondo piano, perché non posso salire a piedi”, “io ho bisogno di stare vicina a mia cognata…”, cioè tutta una serie di casi molto personali, e quindi, poi, questa operazione-consenso è riuscita relativamente.
Poi la funzione del commissariato si esaurì e si rientrò nelle strutture ordinarie (anche in seguito ad alcuni scandali dovuti ad un uso improprio dei poteri straordinari). In Italia si alternano questi corsi e ricorsi storici nell’amministrazione pubblica, per cui ogni tanto nascono strutture straordinarie e poi arriva puntuale la normalizzazione: “No, per carità, ci vuole il controllo, l’aspetto democratico, riqualifichiamo la pubblica amministrazione…”.
A quel punto io cambiai lavoro; feci un bel concorso per sociologi presso il Ministero del Lavoro, e lo vinsi (domanda nel ‘90, esito nel ‘95). Si cercavano 80 sociologi, 200 assistenti sociali, 20 psicologi in tutta Italia, per dotarsi di strutture periferiche per il problema immigrazione, in seguito alla legge Martelli.
Ebbene, quando entrammo, data la lunghezza dell’espletamento del concorso, trovammo una situazione in cui poi il motivo per cui eravamo stati assu ...[continua]
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