Come mai, dopo esserti occupato di Evola, hai dedicato un libro ad Alain de Benoist, un autore ancora relativamente giovane?
Ho iniziato a studiare de Benoist, che è nato nel 1943, perché penso sia il maggiore teorico che la cultura della destra abbia avuto dopo il 1945; credo anzi che, per alcuni aspetti, sia molto più attuale e interessante di Evola. Evola, infatti, era un pensatore legato alla prima metà del ‘900; la sua formazione avvenne negli anni ‘20 e ‘30, risentendo profondamente dell’influenza del fascismo e del nazismo, anche se poi, nel secondo dopoguerra, rielaborò il suo pensiero, e rivide alcune posizioni teorico-politiche. Il pensiero politico di de Benoist, e della nouvelle droite in genere, invece, ha una maggiore freschezza, che io individuo soprattutto in due punti. Il primo è quello di aver imparato a leggere da destra anche gli autori di sinistra, mentre il secondo è la “questione della metapolitica”, cioè la necessità, da parte della destra, di rinunciare alla militanza cieca, disperata -teorizzata anche da Evola-, per impegnarsi soprattutto sul fronte delle idee. Per quanto riguarda il primo punto, cioè la lettura di autori di sinistra da un punto di vista di destra, direi che de Benoist rimane sostanzialmente fedele a una tradizione già presente nella cultura di destra, nel senso che il suo non è l’unico caso di intellettuale di destra che si confronta e rielabora concetti della sinistra in chiave del tutto diversa -nella Francia degli anni ‘20, ad esempio, ci fu il caso di un intellettuale fascisteggiante come Georges Valois-, mentre per quanto riguarda il secondo punto, cioè la questione della “metapolitica”, il discorso è più complesso.
L’ambizione di de Benoist, infatti, è quella di fare evolvere la cultura della destra senza che essa abbia un “torcicollo teorico-politico”, cioè di farla evolvere scorporandola dalla nostalgia per il fascismo e il nazismo, che della destra sono stati i momenti teorico-politici e statuali più significativi. E’ in questo senso che de Benoist critica fortemente la cultura della destra tradizionale, che giudica nostalgica e troppo legata alle esperienze passate. In questa critica e nella scelta della metapolitica, oltre al tentativo di rinnovamento, io vedo però anche un altro aspetto, e cioè quasi una resa della destra davanti alle trasformazioni economiche, politiche e sociali del secondo dopoguerra. In sostanza, secondo me, la soluzione proposta da de Benoist, metapolitica piuttosto che politica, cultura piuttosto che attivismo, non mi sembra altro che la presa d’atto che la destra si rivela sostanzialmente impotente ad aggredire la società europea del secondo dopoguerra con gli strumenti politici tradizionali.
Ma nella “metapolitica” come la intende de Benoist c’è solo la presa d’atto dell’impossibilità politica della destra o c’è realmente una elaborazione del concetto gramsciano di egemonia, cioè l’aver presente che è soprattutto agendo sull’universo culturale complessivo che si rendono poi possibili anche le trasformazioni politiche?
La questione della metapolitica, che in parte deriva, appunto, dalla rilettura che de Benoist fa di Gramsci e del suo concetto di egemonia, è stata molto dibattuta dalla destra radicale. Proprio la destra radicale infatti -in particolare quella italiana, Franco Freda- gli fece un’obiezione assolutamente condivisibile, cioè che, nella visione di Gramsci, alla figura dell’intellettuale si associa la figura del partito, che sarebbe il Principe in senso machiavellico, che deve agire nella società; mentre nella visione di de Benoist questo riferimento manca del tutto. Mi sembra un’obiezione che colpisce nel segno, e che segnala l’atteggiamento strumentale della lettura gramsciana fatta da de Benoist. Se infatti al momento metapolitico manca il momento prettamente politico, se quindi si riduce la politica a metapolitica, non si fa altro che registrare il fatto che non è più possi ...[continua]
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