I palestinesi che vivono in Israele oggi si trovano in una situazione che va deteriorandosi, soprattutto sul piano dei diritti. Ormai discriminazione e razzismo non sono più soggetti ad alcuna sanzione morale, è come se fossero diventati atteggiamenti legittimi, giustificati; non occorre nemmeno più chiamare in causa la sicurezza di Israele. Negli ultimi mesi abbiamo assistito all’emanazione di nuove leggi che discriminano gli arabi, leggi già in corso di attuazione. Inoltre i discorsi dei leader politici israeliani sono molto più radicali di quelli del passato.
Del resto parliamo di un paese che per definizione è lo stato degli ebrei, e che quindi non può essere equo rispetto agli arabi.
Per quanto riguarda la mia attività, io seguo principalmente la situazione delle donne. Trattandosi della società palestinese è facile immaginare come le donne, strette tra consuetudini patriarcali e un’occupazione sempre più dura, vivano una sorta di doppia, tripla o quadrupla discriminazione. Se, ad esempio, parliamo dei tassi di disoccupazione tra i palestinesi in Israele, la media è del 18%, ma se si guarda alle donne i tassi salgono all’80%. Questo problema purtroppo non è considerato una priorità nazionale.
Infatti nonostante siano nate istituzioni specifiche per gli ebrei dell’ultima immigrazione, e nonostante la comunità palestinese in Israele viva in condizioni decisamente più critiche rispetto agli ebrei dell’Est, non c’è alcuna forma di investimento statale volto a migliorare le condizioni della nostra comunità. Anche se, ripeto, noi siamo ugualmente cittadini di questo stato.
Tornando alle donne, però, ci scontriamo con l’esistenza di ulteriori difficoltà. Spesso infatti i villaggi non sono collegati da trasporti pubblici, così, se una donna vuole andare a lavorare in città deve disporre di una macchina, ma se c’è una sola auto in famiglia è scontato che sarà l’uomo ad usarla. Se poi una donna riesce a trovare un lavoro da 2.000 shekel al mese, il marito verosimilmente si opporrà perché la moglie dovrà inevitabilmente trascurare i figli e la casa, le pulizie: “Per 2.000 shekel, è meglio che tu stia a casa”. Anche nel villaggio dove vivo, che conta circa 13.000 persone, non c’è un solo autobus per spostarsi. E pensare che ci sono cittadine di 5.000 abitanti ebrei dove gli autobus passano regolarmente. Se invece una donna del paese dove vivo, Kufr Kare, vuole recarsi a lavorare nelle città arabe di Om Elfahem, Baka Elgarbia, Tira, che distano un’ora, un’ora e mezza, deve uscire dal villaggio e aspettare un autobus per poi essere lasciata all’ingresso dell’altro villaggio, perché l’autobus non può entrare. E per Tira non c’è nemmeno questo, semplicemente non ci si può andare; insomma nel migliore dei casi si tratta di tre ore di viaggio -peraltro non si sa con quali mezzi, casomai con tre-quattro taxi e autobus- solo per raggiungere il posto di lavoro. E comunque, se anche riesci a entrare in città non trovi lavoro, perché in realtà parliamo di villaggi che col tempo hanno assunto lo status di città, ma di fatto non sono né villaggi né città. Non sono villaggi perché non vivono più di agricoltura, in quanto la terra è stata confiscata da Israele; non sono città perché non c’è industria, non c’è modernizzazione. Infine in tutte le comunità patriarcali, o trovi un buon lavoro, o stai a casa. Questo si allaccia evidentemente al fatto che le donne tendenzialmente non sono qualificate, non hanno avuto un’istruzione adeguata, raramente hanno frequentato l’università, perché è costosa, quindi è impegnativa per la comunità… Tra l’altro molte città palestinesi non hanno nemmeno una scuola, e così la maggior parte dei villaggi non riconosciuti. Nel Negev non ci sono scuole per i palestinesi. E di nuovo c’è una combinazione di problemi sociali, politici e culturali. Due o tre anni fa hanno condotto una ricerca sulla situazione scolastica nel Negev, ed è emerso che le ragazze non frequentano la scuola perché se non ce n’è una nel tuo villaggio non puoi recarti in quello vicino, non solo perché la famiglia si oppone, ma anche perché dovresti farti 5-6 km a piedi per raggiungerla. Ecco perché non ha senso parlare di doppia discriminazione, perché non è una ...[continua]
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