Al di là dell’andamento sul campo, che cosa pensa della guerra?
I responsabili militari americani avevano sempre detto, anche per cautelarsi, che la guerra sarebbe stata pesante, e non una sciocchezza. Sanno che non basta la superiorità tecnologica per vincere le guerre. Una guerra come questa -che è una guerra fatta per costruire un impero- richiede l’occupazione militare del terreno. Gli angloamericani, quindi, non possono semplicemente radere al suolo qualche città, al di là dei costi politici che ciò comporterebbe, ma devono andare proprio a prendersi pezzo per pezzo un territorio.
La soluzione di questo problema è consistita nel fatto che, almeno nelle prime fasi, gli americani hanno puntato sulla divaricazione tra regime e popolo: da una parte bombardamenti precisi e, dunque, attenti a risparmiare le popolazioni, e dall’altra, violento scarico di potenza su chi fa resistenza, in modo da far collassare la struttura, disarticolando le catene di comando politico-militari e terrorizzando i combattenti. In questo modo perseguivano un triplo obiettivo: fare in fretta, tenere il territorio e non farsi odiare dalla popolazione. Il regime baathista, da parte sua, ha perseguito l’esatto opposto: impedire quanto più possibile i bombardamenti selettivi, attraverso l’oscuramento del cielo di Baghdad con il nerofumo del petrolio, e tenere strettamente collegati i vertici politico-militari, quindi il regime stesso, al popolo, costruendo un fronte nazional-patriottico, anche di tipo islamico, contro gli americani, e soprattutto utilizzando la popolazione come ostaggio, come insieme di scudi umani contro le operazioni militari alleate. Per di più, ha iniziato a ricorrere alla guerriglia e al terrorismo. Il tutto con l’obiettivo di distruggere il morale interno degli Stati Uniti, attraverso le esibizioni televisive delle stragi di civili e dei prigionieri di guerra Usa. Insomma, mentre gli americani vogliono che questa sia una guerra nel senso classico del termine, fondata sul confronto fra forze armate, fra élite politico-militari, Saddam vuole il linkage fra il popolo e il regime, vuole cioè che questa diventi una guerra tipicamente novecentesca, quindi anche una guerra ideologica, che oggi significa religiosa. A ogni elemento della strategia statunitense corrisponde in senso inverso e speculare un elemento della strategia irachena.
Qual è il punto più preoccupante di tutta questa vicenda?
Nessuno ha difficoltà a sostenere che quello di Saddam Hussein è un regime infame -forse era meglio esserne consapevoli anche 20 anni fa, quando era trattato da benemerito in quanto in guerra contro l’Iran-, ma il punto più preoccupante di tutta la vicenda sono le modificazioni della democrazia americana, cioè il pericolo che, sotto stress, gli Stati Uniti ritornino a comportamenti razzisti: le schedature di coloro che provengono da paesi islamici, il crollo delle garanzie civili stabilito dal Patriot Act, i dibattiti a mezzo stampa sulla tortura, la riduzione dello spazio politico del dissenso, sono elementi inquietanti.
Voglio dire che il rischio, che non si è ancora realizzato, ma che è incombente, è che, a causa della paura, che è sempre una pessima consigliera, si vada all’imbarbarimento dell’Occidente sia al suo interno sia verso l’esterno. Dell’imbarbarimento verso l’interno ho già detto i sintomi, mentre verso l’esterno esso potrebbe concretizzarsi come regressione alla logica politica dei gesti sovrani, cioè della guerra senza altra giustificazione che il fatto di poterla fare. Sarebbe un ritorno non alla barbarie nel senso di comportamenti ‘primitivi’, ma a quella che è l’essenza della sovranità moderna: lo Stato moderno aveva il diritto alla guerra semplicemente perché poteva farla quando voleva -anche ‘preventiva’- purché contro un nemico ‘giusto’ (un altro Stato). Ciò disegnava uno scenario internazionale di straordinaria complessità e instabilità, in cui si poteva raggiungere tutt’al più un momentaneo equilibrio. L’Onu è stato precisamente un tentativo di superamento delle logiche delle prerogative sovrane: si entrava nell’Onu pagando come ‘tassa d’ingresso’ proprio la rinuncia allo jus a ...[continua]
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