Testimonianza di un’insegnante dell’università di Algeri.
Che dire di questa guerra che ci è piombata addosso, che non ci aspettavamo o che forse non volevamo veder arrivare perché non volevamo viverla? Che dire di questa guerra senza nome, che stiamo vivendo in diretta? Per confortarci, diciamo che si tratta di una "crisi", di un brutto quarto d’ora. Umanamente, non si può accettare, ci si ribella, si vuol credere al miracolo che domani tutto ritornerà "normale". Quando invece si analizza la situazione con raziocinio, quando si ammette che è una "crisi" che durerà a lungo e che non è specifica all’Algeria, si ritorna sereni o più modestamente si soffre meno, si arriva a convincersi che una società non si costruisce in quattro e quattr’otto; riusciamo a relativizzare l’orrore, le violenze, a dirci che questo è forse il prezzo da pagare perché la libertà che ci è così cara vinca, perché la giustizia diventi il nostro timone. Dopo tutto, nella Storia del Mondo non mancano certo gli esempi di società che si sono costruite dopo anni di lotte spesso sanguinose. Non è tuttavia possibile, oggi, fare l’economia di una guerra per arrivare alla democrazia?
Nell’attesa, io vivo oggi, come milioni di altre donne e di altri uomini, nella paura di una morte violenta (della mia o di quelli che amo), ma anche nella paziente determinazione di resistere e di lottare contro tutte le forme di fascismo in agguato: quella dell’integrismo religioso o quella di una dittatura militare sullo stile dei paesi del Sudamerica. Oggi migliaia di cittadini sono assassinati dai terroristi: donne, uomini, bambini. Scomparsi, decapitati, uccisi con armi da fuoco, sventrati, sgozzati; per le donne si aggiunge lo stupro... Nessuna categoria sociale è risparmiata. Non avremo mai assistito a così tanti funerali e i cimiteri non saranno mai stati così pieni. Anche a livello di linguaggio comunichiamo attraverso la morte. Quando ci annunciano che qualcuno è morto, siamo quasi sollevati di apprendere che lui o lei è morto/morta di morte naturale. Ci inventiamo delle strategie di sopravvivenza per proteggere la nostra salute mentale. Non si dice forse che l’istinto di vita è più forte dell’istinto di morte? Continuiamo a lavorare, a mandare i nostri figli a scuola, a festeggiare i compleanni, le nascite, i matrimoni... Solo oggi capisco un documentario sul Libano che avevo visto in tivù nel 1980: delle immagini surreali di autobombe, di morti e feriti a fianco di immagini di feste. Quello che per me era allora schoccante e incompresibile, è diventato la realtà della mia vita quotidiana. Tutti i giorni delle bombe esplodono nelle strade di Algeri e altrove, il rumore delle raffiche risuona costantemente nelle nostre orecchie, le sirene delle ambulanze ci richiamano alla morte.
Chi è stato ucciso? Dove è esplosa quella bomba? In quale quartiere? Fra coloro che sono stati falciati c’erano forse dei parenti o degli amici? E poi riemergiamo alla vita. Ci risistemiamo in una routine un po’ confortante e un po’ anestetizzante. Io riprendo la via dell’università dove insegno. Preparo le mie lezioni. Faccio lezione. Correggo i compiti degli esami. Faccio dei progetti con i miei studenti. La mia vita professionale sembra tornare "normale" fino al giorno in cui degli studenti vengono a scusarsi di non aver assistito alle lezioni perché il loro quartiere è stato passato al setaccio dall’esercito e alcuni giovani vicini sono stati arrestati o uccisi perché forse simpatizzanti del Fis (Fronte Islamico di Salvezza, ndr.), fino al giorno in cui Nabila, una studentessa del terzo anno, mi chiede di scusarla se non farà un buon lavoro all’esame perché suo padre è appena stato assassinato, fino al giorno in cui Dallel, studentessa del secondo anno, mi consegna un compito in cui mi racconta come sua madre e la sua sorella più piccola sono state sgozzate due settimane prima. E’ allora che mi chiedo se il nostro atto di presenza al lavoro non sia un atto di eroismo, di incoscienza o di resistenza contro la morte fisica e simbolica.
Oggi tanti sono i miei amici che hanno scelto di andarsene a causa di una vita a malapena vivibile, o che sono stati costretti a prendere la via dell’esilio perché minacciati di morte. Ma tanti sono anche quelli rimasti, tenaci, come dei ciottoli in fondo al fiume.
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