Due mesi dopo, alla fine del 1969, mi imbarcai nella mia successiva avventura rivoluzionaria, che avrebbe finito per liberarmi completamente dall’appello dei Weatherman. Con altri 215 americani mi unii al primo contingente della “Brigata Venceremos” a Cuba, organizzata principalmente da persone che erano state membri dell’Sds prima che l’organizzazione implodesse. Con grande entusiasmo, stavamo rompendo il blocco del nostro governo nei confronti della nazione insulare. Un’avvertenza stampata in modo ben visibile sui nostri passaporti dichiarava che essi non erano “validi per viaggiare” nei “Paesi e nelle aree riservate di Cuba, Cina continentale, Corea del Nord e Vietnam del Nord”. Ma a chi diavolo importava dei passaporti? Il presidente Richard Nixon e i suoi scagnozzi non ci avrebbero impedito di viaggiare nella terra di Fidel Castro e del defunto Che Guevara, la cittadella dell’antimperialismo e del socialismo nelle Americhe. Tuttavia, fummo costretti a volare all’Avana da Città del Messico, dove persone che credevo fossero agenti dell’Fbi (ma probabilmente erano della polizia federale messicana) ci scattarono delle foto prima dell’imbarco.
Il mio piccolo gruppo di Boston doveva prendere una coincidenza a Chicago. Mentre attraversavamo il terminal di O’Hare, il 5 dicembre, ci imbattemmo nei titoli dei giornali che parlavano di un’irruzione della polizia, avvenuta la sera prima, in un appartamento dove vivevano i leader del locale Black Panther Party. Tra le persone uccise in quell’assalto immotivato c’era Fred Hampton, il carismatico ventunenne presidente della sezione dell’Illinois delle Pantere. Il suo omicidio mi fece infuriare, ma mi convinse anche che il viaggio che stavo facendo era necessario. Avrei trascorso i due mesi successivi imparando da persone che avevano portato avanti la loro rivoluzione e stavano lottando per proteggerla contro gli stessi imperialisti razzisti i cui sottoposti avevano appena ucciso il “presidente Fred”.
Per sei settimane dopo l’arrivo a Cuba, esprimemmo la nostra solidarietà̀ tagliando la canna da zucchero in un campo in una zona rurale della provincia dell’Avana. Settanta giovani comunisti, la maggior parte dei quali parlava abbastanza bene l’inglese, vivevano e lavoravano con noi.
Quell’anno, la maggior parte dei cubani fu mobilitata in un’impresa economica che si può definire prometeica o semplicemente folle: la raccolta di dieci milioni di tonnellate di canna da zucchero -il doppio della produzione dell’anno precedente- per rimborsare i prestiti che il governo aveva ricevuto dai Paesi del blocco sovietico e iniziare a portare l’economia cubana verso l’autosufficienza. Cartelloni pubblicitari con la scritta “Los Diez Millones Van!” erano affissi in tutta l’isola. Il governo aveva fatto uscire dalle miniere, dalle fabbriche e dagli uffici centinaia di migliaia di lavoratori altrimenti produttivi per farli lavorare nei campi.
Nessuno di noi radicali yanqui aveva mai impugnato un machete, né tantomeno tentato di abbattere steli di canna alti tre metri e ricoperti di foglie appuntite senza danneggiare i depositi di zucchero che si trovavano vicino al terreno. Dovevamo essere i macheteros meno efficienti della storia. Ma, ovviamente, il vero motivo del nostro essere lì era di farne una questione politica, come dimostrarono i servizi quasi quotidiani che ci dedicarono.
L’articolo di “Granma”, l’organo del Partito comunista cubano, chiarì che gli stessi giovani americani che avevano combattuto per la libertà dei neri e protestato contro la guerra del Vietnam erano companeros della rivoluzione cubana.
La pratica della solidarietà̀ si rivelò anche molto divertente. I cubani ci svegliavano con la musica tutte le mattine, utilizzando una loro melodia ritmata o una canzone rock familiare. Un giorno fummo sorpresi di sentire “Back in the Ussr” dei Beatles dagli altoparlanti. I nostri padroni di casa ci sottoponevano a un regime molto più lussuoso di quello dei macheteros autoctoni. Spezzavano la giornata lavorativa portandoci a metà mattina vasetti di yogurt bulgaro congelato alla frutta e servendoci a pranzo un pasto di tre portate.
La sera, dopo un’ottima cena (e tutti i sigari che potevamo fumare), ascoltavamo i discorsi degli intellettuali del partito e di un’occasionale band afro-cubana. Un giorno, Fidel stesso venne a machetare con noi e poi tenne un discorso di un’ora, a braccio. Tutto ciò che ricordo del suo discor ...[continua]
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