La questione dell’antisemitismo è tornata prepotentemente d’attualità soprattutto perché l’antisionismo, ma anche l’astio o anche solo le critiche rivolti contro la politica di Israele verso i palestinesi, vengono ormai accomunati sistematicamente all’antisemitismo. Possiamo tentare di fare un po’ di chiarezza?
Secondo me, quando si affrontano questi temi, prima di tutto, per evitare confusioni o malintesi, bisogna definire gli oggetti di discussione. Una premessa che mi sembra utile e necessaria consiste nell’evitare di considerare il sionismo o l’antisemitismo come delle categorie monolitiche. Esistono tanti sionismi come esistono molte varianti dell’antisemitismo, non si possono ricondurre tutti a un’essenza. Vale a dire: tra Gershom Sholem, Martin Buber e Ariel Sharon le differenze sono tali per cui dire che sono tutti sionisti non ha molto senso. Sarebbe come dire, che so, che Che Guevara e Kim Il Sung sono comunisti e vanno messi sullo stesso piano... Allo stesso modo parlare di un antisemitismo universale nel quale ci starebbero dentro Arafat, Hitler e gli adolescenti della periferia di Parigi, significa fare un amalgama che svuota di contenuto le categorie. Insomma, bisogna un po’ distinguere. Forse la confusione nei confronti del problema dell’antisemitismo deriva dal fatto che queste distinzioni indispensabili oggi sono spesso dimenticate perché siamo di fronte a forme nuove di giudeofobia, distinte dall’antisemitismo tradizionale, classico. Il concetto di “giudeofobia”, coniato da Taguieff, aldilà delle conclusioni che si possono tirare dalla sua analisi e che io non condivido, in parte coglie nel segno, mi sembra. Ma io penso, appunto, che le nuove forme di giudeofobia siano molte diverse da quelle antiche, che presentino delle specificità in effetti legate ad un contesto attuale e che, quindi, non possano essere combattute con gli strumenti con i quali storicamente si è combattuto il nazismo e l’antisemitismo. Ci sono anche elementi di continuità, di affinità, delle analogie, ma si tratta di due fenomeni sostanzialmente diversi.
La stessa storiografia sull’antisemitismo, benché sia di dimensioni gigantesche, non ci aiuta molto ad affrontare i problemi contemporanei. Molto spesso è infatti caratterizzata da una specie di presupposto metodologico implicito che vede una continuità: dalle prime forme di ostilità nei confronti degli ebrei, in cui c’è un paradigma religioso, attraverso molte metamorfosi, si arriverebbe fino ad oggi. Ci sarebbe cioè un solo antisemitismo che prende delle facce diverse. Per esempio, la storia dell’antisemitismo di Poliakov, un testo di riferimento che offre una miniera di informazioni, è attraversata dall’idea appunto di una continuità fra antigiudaismo cristiano e antisemitismo nazista moderno. In sostanza, l’antisemitismo diventa la modalità normale dei rapporti fra ebrei e gentili, e allora l’Olocausto è lo sbocco, sia pure non inevitabile, che si iscrive in questa secolare storia di odio antiebraico. Mi sembra che questa sia un po’ la matrice di molte confusioni e di molti malintesi oggi diffusi.
A partire da questa visione, non si può fare a meno di ricollegare le manifestazioni di questa nuova giudeofobia a un antisemitismo antico e la logica conseguenza è che, siccome l’antisemitismo ha prodotto Auschwitz, queste nuove forme di giudeofobia sono altrettanto pericolose, sono potenzialmente genocidarie. Di qui la conclusione che il mondo arabo è una specie di potenziale camera a gas per gli ebrei che vivono in Israele. A quel punto è evidente che criticare Israele o dirsi antisionisti significa automaticamente apparire come dei complici di un nuovo genocidio.
Io penso che questo approccio abbia fatto dei guasti enormi. Anche un libro come quello di Hilberg sulla distruzione degli ebrei d’Europa, forse il più importante prodotto della storiografia, in tutta la prima parte presenta uno schema quasi teleologico. Si parte dall’ostilità nei confronti degli ebrei che dice: “non avete più diritto di vivere fra noi come ebrei”, per passare a “non avete più diritto di vivere fra noi”, per poi arrivare a dire: “non avete più diritto di vivere”, come se questa fosse una seq ...[continua]
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