Nel momento in cui l’avventura irachena si è rivelata un totale fallimento, sia in termini di riconfigurazione della politica in Medioriente, come pure sul piano di una dimostrazione di forza, segno della capacità dell’America di cambiare gli equilibri mondiali unilateralmente, con la sola volontà, l’amministrazione è rimasta con pochissime scelte possibili. Da un lato c’è evidentemente la decisione di ridimensionare le proprie ambizioni e quindi una variazione di quella che fin dall’inizio è stata l’unica agenda americana. L’altra opzione è invece quella di cercare di risolvere le costrizioni interne, e la percezione di una crescente debolezza, facendo un salto in avanti. Bush, ad oggi, sul piano interno, è ormai diventato uno dei presidenti meno popolari nella storia recente, si sta avvicinando ai tassi di popolarità di Richard Nixon durante il Watergate. E al momento non ha una vera forza politica organizzata a sostenerlo.
Quindi ci troviamo di fronte a una situazione molto debole, ma con una sua autonomia sul piano dell’azione. Alla luce di questo scenario, un attacco all’Iran diventa anche verosimile. Evidentemente l’entrata in guerra presuppone una mobilitazione attorno a un’agenda che già è fallita in Iraq, e tuttavia uno stato di crisi riproporrebbe quelle condizioni ottimali per riprendere il controllo sulla politica interna; la guerra è un alibi e uno strumento straordinario per legittimare un governo autoritario, sul piano interno come su quello esterno.
Bush sta diventando un presidente sempre meno popolare e credibile soprattutto sul piano del consenso interno e questo è un problema drammatico. C’è poi da aggiungere che la sua coalizione, di estrema destra, fatta di intellettuali neocon, estremisti della sicurezza nazionale, fondamentalisti cristiani, è priva di qualsiasi coerenza interna. All’interno delle forze istituzionali molti restrospettivamente stanno non solo avanzando critiche all’attacco all’Iraq, ma dubitando dell’intera agenda imperiale. I “realisti” della sicurezza nazionale si sono convinti che proprio questa politica imperiale espansionista, lungi dal garantire, sta minando l’egemonia americana sul lungo periodo.
Dunque, riassumendo, c’è una rottura istituzionale, una coalizione che non è una vera coalizione, bassi livelli di popolarità e il bisogno impellente di restaurare un’autorità.
Ecco che allora la guerra diventa una “soluzione” per tirarsi fuori da tutto, perché permette di mantenere uno stato di crisi permanente. Che è quello che poi hanno fatto dal 2001: governare in uno stato di costante emergenza, il tutto grazie a sistematiche bugie sulla presenza di armi di distruzione di massa, sui collegamenti tra Saddam Hussein e Bin Laden, ecc.; bugie a cui, nonostante le numerose prove in senso contrario, il 50% della popolazione ha dato credito. E’ stato grazie alla strumentalizzazione di queste menzogne che hanno ottenuto il consenso a una politica imperiale espansionista, che diversamente la popolazione americana non avrebbe mai accettato -per i costi umani, economici, per le possibili conseguenze internazionali.
Non a caso si è parlato di un’agenda autoritaria volta a governare attraverso lo “shock and awe” (colpisci e terrorizza). Il fatto è che lo “shock and awe” non è rivolto solo al nemico esterno putativo, Iraq, Iran ecc., i cosiddetti “Stati canaglia”, questa politica è volta a shoccare la stessa popolazione americana, per sottometterla.
L’ottenimento del consenso non è solo un sottile processo di costruzione ideologica, come nel caso del neoliberalismo (che appunto punta al consenso in base al fatto che non ci sarebbero alternative: c’è una sola strada alla modernità), qui c’è qualcosa di molto più “brutale”: una costruzione del consenso attraverso la paura.
Non ...[continua]
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