Oggi vediamo riemergere in America, ed anche in Europa, quella specie di sentimento visionario, alternativo, che proviene dagli anni ’60. Ma mentre negli negli anni ‘60 l’accento era interamente posto sull’elemento “caldo” della comunicazione diretta, della carnalità, dell’alterazione psicochimica “calda”, ad esempio con l’LSD, oggi l’elemento principale della trasformazione possibile viene identificato nella tecnologia, nelle possibilità della tecnica. Questa accentazione sulla tecnologia “raffredda” moltissimo le forme di comunicazione, come nel caso, ad esempio, della comunicazione attraverso lo schermo del videotel. Il problema oggi è quindi questo: come è possibile, all’interno di un mondo “raffreddato” dalle tecnologie, ritrovare percorsi comunitari che inscrivano utilmente la funzione che le tecnologie possono svolgere? Mi spiego in un altro modo. C’é uno studioso californiano, Renè La Vallè, che nel libro “Networks evolution” spiega come nel corso del ventesimo secolo ci siano due tecnologie che si alternano e si combattono: una è quella televisiva, l’altra è quella telefo­nica. In quella televisiva l’oggetto sta nel centro e paralizza chi sta attorno mentre quella telefonica permette a ciascuno di mettersi in con­tatto con chi vuole. Se riuscissimo a mettere l’interazione al centro del sistema tecnologico la tecnologia stessa potrebbe diventare uno strumento del “calore”, mentre, se al centro ci sarà la televisione siamo destinati al grande freddo per l’eternità. Non stiamo quindi discutendo delle tecnologie in sé, ma delle modalità di organizzazione del rapporto fra uomini tramite la tecnologia.
Ma proprio in questo tramite c’è un problema. L’universo delle tecnologie, la tecnica, è, costitutivamente, solo un “saper fare”, un qualcosa che non ha in sé un fine che la trascenda. Il puntare sulle tecnologie, anche nella ricerca di nuove forme di organizzazione sociale, non significa che queste rimangono l’elemento centrale mentre il fine diventa del tutto accessorio ad esse? Il punto in cui siamo è evidentemente questo; dobbiamo riconoscere che il sociale, l’”umano”, ha perduto. Ma vogliamo dare la responsabilità della sconfitta dell’umano alle tecnologie? Io direi di no, nel rapporto fra l’uomo e la televisione non ha vinto la televisione, ha vinto Berlusconi. Ha vinto, cioè, un modello di organizzazione della tecnologia comunica­tiva. L’alternativa fra modelli è una questione che rimane aperta, il problema è vedere quale modello riuscirà a impadronirsi delle tecnologie che nel frattempo si sviluppano. E quando dico Berlusconi non intendo tanto la persona in sé, è sbagliato personalizzare. Non si può più ne­anche parlare di uso di classe delle tecnologie perché la modellizzazione “autoritaria” della tecnologia non è più dovuta al fatto che il “cattivo”, o una certa classe, usa la tecnologia per i suoi fini; la questione è che un certo modello di uso della tecnologia si è ormai incar­nato nella macchina stessa, valga come esempio il discorso di La Vallè su telefono e televisione. Non possiamo quindi considerare nemico il soggetto che utilizza la tecnologia vincente; nemico è il modello che la tecnologia ha incorporato dentro di sé. Il problema dell’alternativa non si pone quindi in termini politici; siamo fuori strada se pensiamo di condurre una battaglia politica contro Berlusconi. E’ una illusione pensare, come Veltroni, che, sostituendo a Berlusconi il direttore di RAI 3 Angelo Guglielmi, la situazione si sblocchi; Guglielmi ti darà programmi più intelligenti, più decenti che non Berlusconi, ma il punto non è questo. Il punto è quello dell’uso sociale che una tecnologia permette di sé e quindi il modello che una tecnologia, nella sua concatenazione, costruisce. E’ questo il punto che si tratta di sbloccare. La politica è la capacità di governare dall’esterno i processi sociali e tecnologici; forse ai tempi di Machiavelli, o anche a quelli di Lenin, la po­litica funzionava, c’era la possibilità di governare dall’esterno le cose, ma oggi non é così. Oggi dall’esterno, sulla base di una decisione per un mutamento degli uomini, per un mutamento dei congegni decisionali, non cambiamo niente. Io non posso avercela con Andreotti o con Craxi, ho l’impressione che siano tanto impotenti quanto lo sono io o lo sei tu. Questo nel senso che la capacità del politico, come uomo e come funzione, di determinare i modelli è praticamente ridotta a zero. Il problema è quindi culturale e antropologico, non ...[continua]

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