Le ultime pagine dei Fratelli Karamazov sono dedicate al funerale di un bambino, Iljùsa morto di tisi e di stenti. Dostoewskij non ci risparmia nulla; descrive l’espressione del piccolo nella sua bara celeste, i suoi stivalini rossicci e rattoppati, la povertà della casa, la madre malata di mente che si batte il petto con il pugno, il padre, l’ufficiale degradato Snegirëv che accompagna il corteo funebre stretto al suo “vecchio cappottuccio, troppo corto e troppo leggero”.
Il romanzo potrebbe fermarsi qui, nel cuneo del dolore più scandaloso e inaccettabile, quello per il quale è giusto “rendere a Dio il suo biglietto d’ingresso”: il tormento di un bambino, la morte di un innocente. Potrebbe chiudersi sulla limpida giornata invernale, sui compagni di Iljùsa che portano la bara fino al cimitero, e tutto sarebbe nell’usuale smarrimento che si prova di fronte alla morte, nella bellezza senza risposta della commozione. Ci aspetteremmo una pace confusa, la stanchezza fisica di chi è inconsolabile, ma il racconto continua, la terra cade sulla tomba, Snegirëv trova appena la forza di esaudire il desiderio del figlio: sbriciolare sopra la fossa una crosta di pane “così i passerotti verranno a beccare, io li sentirò e sarò contento di non essere solo”. Leggiamo, e pensiamo che su tanta pena ora potrà calare solo il silenzio, che le immagini sfiocheranno lentamente nella tristezza, nella necessità del vuoto, che nessuna azione sarà più possibile. Invece ecco è pronto il banchetto funebre, ci sarà del salmone, ci saranno delle frittelle. “Tanto dolore -dice sconcertato Kòlja, uno dei ragazzi- e poi delle frittelle”. E’ la frase in cui si stringe l’intero romanzo, quella con cui Dostoewskij sceglie di rispondere alla logica “euclidea”, alla ribellione umana nei confronti del dolore. Che cosa può stare accanto allo scandalo della sofferenza se non qualcosa di scandalosamente mite, di follemente lontano dal rancore, dal giudizio, dalla memoria? Che cosa possiamo opporre al male se non la totale alterità di un gesto: Sonja che s’inginocchia davanti al delitto di Raskolnikov, padre Zòsima che s’inginocchia davanti a Dimitri? Le frittelle, il tempo quieto dell’epulum, sono -come i segni che Cristo traccia sulla sabbia prima di rispondere ai farisei che vogliono lapidare l’adultera- l’improvviso azzerarsi di una distanza, l’incenerimento di ogni vendetta.
Forse la bellezza capace di salvare il mondo non è che il dolore portato oltre se stesso, tanto spinto in avanti da sfondare in un’assoluta innocenza. Alesa Karamazov parla e chiede ai bambini di ricordarsi per sempre di essere stati buoni, di aver voluto bene ad Iljùsa. Sono parole toccanti ma resterebbero nel chiuso dei buoni sentimenti (e forse non è un caso che vengano pronunciate non nel recinto del cimitero ma accanto ad una semplice pietra) se lì nell’abbagliante realtà di una tavola funebre non si fosse annunciata un’altra realtà, la radice di quel segreto affilarsi che coincide con la nudità dell’infanzia: le voci dei bambini che gridano “urrà per Karamazov” tenendosi per mano.
Antonella Anedda
di vita e di morte, di filosofia e altro, di letteratura e altro
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