La realtà non è tenace, ha bisogno della nostra protezione. Le case crollano, interi mondi scompaiono, noi siamo sempre sul punto di andare. Ogni stagione un congedo e insieme un tempo slittante, una corsa rovesciata con punte roventi. Se qualcosa può fare il linguaggio è sterrare di volta in volta uno spazio all’interno del quale nulla sia superfluo, uno spazio mite, come un recinto dove gli oggetti e gli esseri respirino gli uni accanto agli altri, abbiano durata e luce. Scrivere non è che questo: la realtà della parola contro l’irrealtà la gratuità del male. Vedere tutto, soffrire di tutto, non ritrarsi, avanzare nella vita sapendo che tutto ha un peso, che nulla può esserci risparmiato. E’ il tema della responsabilità di Char, la sua concezione della poesia come insonnia perpetua, è Alioscia Karamazov che torna e resta nella famiglia dove verrà compiuto il parricidio, proprio lì dove il suo cristianesimo sembra più insensato. Il male assoluto, invendicabile, quello della tortura e dei campi di concentramento, lo stesso che Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo identifica con la volontà di rendere gli esseri superflui in quanto uomini, non può essere raccontato se non mostrando la superfluità degli aguzzini. Di fronte a questo male tutto ciò che non è politica è poesia, custodia della realtà proprio in quanto ferita. Quando in Todesfüge Celan c’inchioda a quel fischio ripetuto e indifferente che chiama uomini e cani, quando Hüttenfenster ci stringe nel soffio gelido dei sospesi, dei raminghi lungo una costellazione di tombe non svela solo l’ossessiva ritmicità di un massacro, ma dà riparo al respiro delle ombre, al battito di qualcosa che altrimenti non avrebbe luogo e nome.
C’è un punto sul ciglio della perdita più atroce in cui ingiustamente rintocca un suono nitido e segreto, la solitudine di una mitezza impensabile. Penso a una donna, filmata in un documentario di Herzog sulla guerra del Golfo, che aveva perso l’uso della parola dopo aver visto morire sotto tortura i figli. Le restavano solo come delle grida soffocate, e tuttavia quel balbettio, quella voce che non era più voce ma un mormorio ferito, erano realtà, dolore puro che si opponeva alla superflua crudeltà dei carnefici. Forse Simone Weil che in pieno regime nazista dice che il paradiso è qui sulla terra intendeva parlare di questo: il paradosso di una gioia lì dove la gioia è impossibile, i demoni cacciati da una luce totalmente umana, il roveto nel deserto. Noi possiamo ribellarci e azzerare il nostro linguaggio e tuttavia dall’ultimo, povero frammento di questo ammutolire può affiorare il riconoscimento di quell’universo che sembrava distrutto. Questa è l’unica risposta e l’unica difesa della poesia: una luce che ruota dentro di noi e illuminando un dettaglio del mondo rivela la possibilità di abitare quel mondo. Dopo gli orrori compiuti dai tatari Andrej Rublev non vuole più dipingere, per anni non parla e non tocca un pennello, poi di colpo mentre infuria la peste mentre si replicano con monotonia stragi, guerre, intolleranza, “vede”, riesce a vedere il suo capolavoro: la Trinità in due contadini e un ragazzo: tre esseri smarriti e stanchi ma per un attimo lieti nel conforto di una tettoia scrostata, che li ripara dalla pioggia, nel breve calore del vino, del sole improvviso.
Antonella Anedda
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