Ludovico Vico è segretario della Cgil di Taranto.

Qual è oggi la situazione degli operai a Taranto, dopo la lunga crisi?
La storia di Taranto industriale è una storia lunga almeno cent’anni, dal momento in cui la città diventa sede dell’Arsenale, nel 1889. Nel secondo dopoguerra, all’interno della strategia dello sviluppo capitalistico italiano, voluto dallo Stato, nascono i poli siderurgici, tra cui quello dell’Italsider, oggi Ilva, che dà il via alla seconda fase di industrializzazione della città.
Taranto negli anni Sessanta contava quasi 96 mila abitanti, e la sua economia, nonostante la presenza dei cantieri Tosi, della Fincantieri e dell’Arsenale, era ancora legata alla pesca e alle attività terziarie. Tra la costruzione del centro siderurgico e il suo raddoppio, che porta alla costruzione di 50 forni, 2 treni nastri, 2 acciaierie, 100 colate continue, 2 tubifici, questa città, nel volgere di 15-20 anni, passa a 270 mila abitanti, con forti fenomeni di mobilità e pendolarismo, a livello provinciale e regionale, in particolare con la Basilicata. Il pendolarismo comincia a "proletarizzare" -usando un termine improprio, ma in fondo simpatico- pescatori, braccianti, contadini, artigiani e soprattutto i giovani, che uscivano dall’Itis negli anni Settanta. Allora, effettivamente, sembrava che le professioni aperte dal diploma industriale fossero in un momento esplosivo. Contemporaneamente, si verifica l’insediamento di vere e proprie colonie di operai, la più numerosa è quella lucana, a pari merito con quella calabrese, causa di ulteriori sconvolgimenti. La città viene travolta rapidamente da volumi urbanistici che non può sopportare, dovendo ospitare 250 mila persone. A quel punto, nella storia della città, chi pesa è la classe operaia: le forze politiche e i gruppi sociali che assumono la direzione della città nella fase espansiva hanno a che fare in qualche modo con la fabbrica. Parliamo di una "città nella città", con 53 mila persone, che punta anche sulla provincia, perché i consigli comunali dei paesi si riempiono di consiglieri operai. Il mito infatti era: "Siamo tutti Italsider", anche se poi molti in realtà lavoravano negli appalti o in imprese minori.
Tuttavia, lo sviluppo industriale della città resta voluto dal centro: l’area industriale è costruita dall’intervento pubblico, in una città che non ha una sua borghesia, ossia un ceto con una sua cultura, un suo punto di vista, una sua forza economica. Qui, i presidenti delle associazioni industriali sono stati sempre degli edili, perché la grande industria stava in Intersind, non in Confindustria. E’ un’assenza, quella di una borghesia tarantina, che continuerà a pesare, e non poco, sulla città.
Così, per 15 anni, lo sviluppo industriale ha avuto un carattere espansivo che ha portato a redditi e consumi superiori ai livelli nazionali. Va detto anche che la provincia i processi di industrializzazione non li ha vissuti, è stata solo apportatrice di manodopera: ad eccezione del distretto tessile di Martinafranca, l’attività economica prevalente è rimasta l’agricoltura.

Non è un particolare di secondaria importanza perché, se al momento della crisi la provincia di Taranto "terrà", sarà proprio grazie alla fatica e alla laboriosità dei contadini poveri, rimasti in ombra per tutto il periodo del grande sviluppo siderurgico.
Ti stai riferendo alla strana figura del "metalmezzadro", come venne chiamata in fabbrica?
Il termine "metalmezzadro" nacque in fabbrica quasi per scherzo per indicare la figura del mezzadro, o del piccolo contadino, che dalla provincia, non solo di Taranto, andava a lavorare all’Ilva, o negli appalti, per diventare operaio. Ho assistito personalmente nella piazza del mio paese a scene emblematiche, quando questi operai, ex-braccianti o piccoli contadini, tornavano in piazza la sera, mostrando la busta paga con vanto e disprezzo. Stiamo parlando della fine degli anni Sessanta: guadagnavano 73 mila lire, mentre la paga di piazza per chi viveva in campagna era di 2.500 lire al giorno, per sei ore di zappa. Loro andavano in piazza e dicevano: "Non facimmo gnente e guarda quanto guadagnamo".
Quel "Non facciamo niente" indicava la diminuzione secca della fatica: non si potevano paragonare le 8 ore per 5 giorni, in fabbrica con le 8 ore per 7 giorni, in campagna.
Col passare del tempo, poi, questi metalmezzadri vivranno i problemi dell’essere operai: il pendolarismo, la fatica operaia, le malattie professionali, l’am ...[continua]

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