Irene Bersani è nata a Cattolica, ma ha vissuto per vari anni in Africa, dove è andata come suora missionaria. Oggi risiede a Verona dove, tra le altre cose, conduce il mensile Raggio.

Era il 1961 quando sono stata costretta a lasciare la mia famiglia, peraltro in malo modo perché mia madre, che pure era molto religiosa, pensava che una vita simile non avrebbe potuto rendermi felice, mi vedeva una persona troppo libera, abituata a partire, andare, tornare.... Quindi si era opposta con tutte le sue forze, e con lei anche gli altri, i miei fratelli, il babbo non ce l’avevo più. La mia partenza è stata traumatica: praticamente me ne sono andata.
La riconciliazione è avvenuta solo due anni e mezzo dopo, quindi ho passato tutto il mio periodo di postulato e noviziato col "magone", perché non riuscivo a riallacciare i rapporti con una famiglia che amavo moltissimo. Il miracolo è avvenuto tramite una nipotina che si è intromessa: i miei genitori si sono presentati qui il giorno della mia professione, mi hanno vista felice, e le idee di mia madre sono cambiate. La professione religiosa è avvenuta il 3 maggio del ’64, e in ottobre ero già in partenza per l’Africa come suora missionaria comboniana.

La mia è una storia come tante, forse semplicemente un po’ lunga, visto che gli anni ci sono: sono nata nel 1931, in maggio. La guerra, anche se ero piccola, me la ricordo bene, perché dalle nostre parti si è fatta sentire, Rimini è rimasta famosa per le distruzioni subìte. Ho cominciato abbastanza presto a pensare oltre i confini del mio paese e visto che non potevo partire immediatamente a diciott’anni per la missione, come sognavo, sono andata a Milano all’Università Cattolica, dove mi sono laureata nell’indirizzo letterario. Negli anni passati a studiare mi sono trovata di fronte a una serie di problemi che la mia scelta religiosa comportava, il principale era che la vocazione missionaria si abbinava a un tipo di vita, quella religiosa, che non coincideva con quanto avevo immaginato e sognato. Ho anche valutato l’ipotesi di andare come laica, volontaria, c’erano già alcuni istituti di questo tipo. Ma a quel punto si sono imposte altre difficoltà e sono stata costretta ad occuparmi, anche dal punto di vista economico, dei miei cari, insegnando per alcuni anni a Cesenatico, facendo la spola tra Cattolica e Cesenatico col treno. Solo successivamente ho individuato nelle suore missionarie Comboniane la possibilità di realizzare il mio ideale. Le avevo già conosciute attraverso i vecchi numeri di Raggio, si vede che era una predestinazione, e una volta incontrate la decisione è stata presa.
Sono stata destinata all’Eritrea, allora si diceva Etiopia perché politicamente c’era un’unica nazione. Ad Asmara stava sorgendo un’università che le suore comboniane avevano progettato e pensato per dare anche al popolo eritreo la possibilità di studi superiori. I corsi universitari prevedevano due indirizzi linguistici: in lingua italiana perché allora la lingua italiana era ancora la lingua veicolare, e in lingua inglese che già stava prendendo piede. Lì ho cominciato la vita di missionaria e insegnante.
E’ stata un’esperienza di arricchimento: quando si partiva si pensava sempre di "andare a portare", vivendo insieme invece ci si accorge che molto si riceve; c’è uno scambio, anche di valori umani, alcuni dei quali vengono scoperti o riscoperti. Io, per esempio, ho ammirato molto nei miei studenti qualcosa che noi in quel periodo abbastanza frenetico avevamo perduto, ossia la capacità di ascolto. In classe quando uno parlava, non solo un insegnante -in quel caso avrei potuto pensare che fosse servilismo- finché non aveva finito il suo discorso, gli altri ascoltavano, e solo dopo si esprimevano. Questo per me è stato un segno di grande civiltà e rispetto dell’altro; potevano arrivare a discussioni anche molto calde, ricordo che vedevo gli occhi iniettarsi di rosso -là è più difficile vederli cambiare colore, ma si vede dagli occhi quando si arrabbiano- eppure c’era sempre questa capacità di concertare insieme il discorso, di arrivare a una soluzione alla fine, senza volerla prefabbricare.

In quegli anni, girando per i villaggi, sono venuta a contatto anche con le famiglie degli studenti, e ho visto come le donne fossero sottomesse. Parlo del periodo immediatamente precedente a quello in cui sono entrate a far parte dell’esercito irregolare, della resistenza, dove invece in certi casi hanno acquistato quasi un pred ...[continua]

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