Andrea Ranieri, già sindacalista, oggi è assessore al Comune di Genova, dove si occupa di promozione della città, progetti culturali e politiche per i giovani, sviluppo dell’innovazione e dei saperi, partecipazione e Città Digitale.

Ci conosciamo da un po’ di anni e non possiamo negare un certo stupore quando sei sparito dal radar della politica nazionale… Cos’è successo?
Dopo i primi furori giovanili, ho fatto il sindacalista nella Cgil, con due punti di riferimento ideali fondamentali sempre presenti: Vittorio Foa e Bruno Trentin. Ho cercato di fare sindacato in maniera innovativa -ma senza confondere l’innovazione col cedimento alle mode liberiste- mutuando un’idea forte di libertà dalle esperienze e dalle lotte dei lavoratori, con una grande consonanza di idee e di valori con quelle grandi figure che hanno perso, storicamente, nella storia del movimento operaio (e che di questi tempi hanno tanto da dirci).
Ho fatto il sindacalista pensando a chi ha lavorato per l’autogestione, per l’autodeterminazione dei tempi e della propria vita; avevo in mente un sindacato non meramente redistributivo, capace invece di mettere al centro il tema del lavoro, inteso come terreno di liberazione dell’uomo, delle sue potenzialità e delle sue capacità. Insomma, la storia che ci hanno raccontato Vittorio Foa ne La Gerusalemme rimandata, e Bruno Trentin ne La Città del lavoro, che poi è anche un panorama di perdenti storici, da Karl Korsch a Simone Weil, a tutti quelli che hanno dato al movimento operaio idee importanti ma sono stati sconfitti dalla deriva statalista (e non libertaria e autogestionale del socialismo e del movimento dei lavoratori).
Sono arrivato però a un momento in cui la mia esperienza nel sindacato si era abbastanza logorata. E’ stato lì che Piero Fassino mi ha chiesto di entrare nella segreteria dei Ds e quando è nato il progetto del Pd mi ci sono buttato con intensità, convinto che lì potesse esserci il terreno adatto a far sì che quella cultura che ha sempre cercato di tenere insieme libertà e uguaglianza potesse mettere radici e dare frutti.
In quella sede mi sono dedicato principalmente alle tematiche della scuola, della ricerca e dell’innovazione, con alcuni punti di riferimento importanti, soprattutto Jacques Delors e l’idea dell’Europa come società della conoscenza, fondata su un sapere capace di tenere insieme competitività e coesione sociale, libertà e diritti.
E’ un’idea straordinaria, che io considero l’ultima grande utopia del movimento dei lavoratori, e che, per un momento, era diventata addirittura la linea dell’Europa prima della Conferenza di Lisbona.
Su questi temi ho lavorato con molto impegno, costruendo con altri un gruppo di lavoro esteso e ramificato a rete. Ho scoperto poi che non era questo il modo in cui il Pd si stava costruendo, che decisive e determinanti erano le appartenenze. Non era nemmeno più il caso dell’incrocio fra la vecchia cultura socialista e la vecchia cultura cattolica, no, era solo il confronto fra due burocrazie, che sopravvivevano alla crisi della cultura socialista e del popolarismo cattolico. E qui non posso non fare un’osservazione: se analizziamo i risultati delle ultime elezioni europee scopriamo che registrano la crisi verticale del socialismo europeo, e che il Ppe è proprio tutta un’altra cosa rispetto alle tradizioni del popolarismo cattolico. E noi, qua, continuiamo a ragionare come se il nostro compito fosse difendere e diffondere queste due tradizioni...
Questo è l’aspetto più degenerante della situazione. Io ci ho provato a far politica tentando di restare al merito delle cose. Pensavo che avrei dedicato il 90% del mio tempo alla risoluzione dei problemi, e alle questioni interne del partito al massimo il 10%. Ho scoperto invece che per chi lavora all’interno del partito, il rapporto è esattamente rovesciato: il 90% è per gli equilibri interni, il 10% per il merito dei problemi.
Quando mi fu spiegato -spiegato è dire troppo- perché, dopo solo due anni, non potevo più fare il senatore, mi venne spiegato che c’era stima generale per il lavoro che avevo fatto, ma che nessuno, alla riunione in cui si costituivano le liste per le politiche del 2008, aveva detto "Mio”. Ecco, questa motivazione mi ha convinto che lì non era più possibile far politica. E lo dico senza nessun rimpianto o rammarico, perché qui a Genova sto facendo il lavoro che in assoluto mi è piaciuto di più nella vita.
Parlaci un po’ di questa esperienza genov ...[continua]

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