Nonostante le notizie che arrivano dal Sud siano sempre più allarmanti, la questione meridionale sembra essere uscita dall’agenda culturale e politica del paese.
La questione meridionale è da sempre soggetta ad un andamento ciclico che la porta talora a diventare tema nazionale di primario rilievo, talora ad essere dimenticata. Sono dei cicli che già più volte si sono succeduti.
Per esempio, quando negli anni Ottanta terminò l’intervento straordinario seguì circa un decennio di epoché, di sospensione di ogni idea di sviluppo, come pure di flussi finanziari.
Poi ci fu il rilancio con la nuova programmazione di Ciampi e le operazioni portate avanti da Fabrizio Barca, soprattutto per captare fondi comunitari e canalizzarli in progetti di sviluppo. Questa è un’operazione che ha preso un decennio, forse un po’ di più, che però si è andata esaurendo, di nuovo, alla metà degli anni 2000, intorno al 2005.
Sembra che col nuovo ciclo comunitario, dal 2007 al 2013, in fondo non ci sia per il Sud un’idea progettuale. D’altra parte non c’è più da parte del governo centrale un’attenzione al Meridione come a una questione nazionale, sia perché ha preso abbrivio la questione settentrionale, sia perché da sud, occorre dire, non si sono levate delle voci, non s’è formata la domanda "dateci qualcosa”, oppure "occupatevi di noi”, o ancora "permetteteci di occuparci di noi”.
E’ subentrata una fase di rassegnazione.
Quei progetti di sviluppo su cui tanto si era investito anche concettualmente -c’è tutta una sociologia dell’economia dello sviluppo locale tarata sul Sud- hanno portato a risultati alla fine insoddisfacenti. Lo sforzo non ha prodotto, non dico il risultato atteso, ma nemmeno quei minimi presupposti per un possibile sviluppo futuro. Non ci siamo sfangati. Essenzialmente non c’è stato l’incontro tra la razionalità del piano proposto e anche redatto nei documenti di programmazione, la progettazione integrata tipo i Pit (Programmi integrati territoriali) ed altre esperienze analoghe (che erano molto esigenti in termini di razionalità da parte degli attori) e i risultati effettivamente conseguiti. (In una conversazione come questa ritengo utili valutazioni anche drastiche, che poi nell’analisi distesa andrebbero sfumate e qualificate).
Sicuramente la società locale ha molto traccheggiato, anche per l’esistenza di conflitti tra interessi difficilmente componibili. E’ mancata una visione unitaria dei problemi dello sviluppo locale e di conseguenza si è fatto strada un uso molto strumentale dei programmi, per captare fondi, poi deviati dallo scopo per cui erano destinati.
E’ prevalsa così questa specie di amnesia della questione, sopraffatta dal battage rumoroso della questione settentrionale.
Intanto dal Sud venivano segnali molto problematici. Senza citare i casi estremi della Calabria e della Sicilia, quello che è successo in Campania, quello che recentemente è successo perfino in Puglia, fa pensare molto male.
Diciamo che anche nelle regioni nelle quali si era insediato un governo locale sufficientemente virtuoso, con una prospettiva strategica, che aveva delle idee, poi di fatto le pratiche correnti si sono molto banalizzate per un verso, e per l’altro verso si sono costruiti sistemi di potere locale in cui le transazioni restano molto oscure.
In queste vicende la sanità finisce sempre al centro, ma anche il governo del territorio; in quello che una volta si chiamava il governo delle rendite, resta tutto molto oscuro, molto dubbio, anche a prescindere dai problemi di corruzione nel senso stretto.
Questo modo di governare produce esiti, nel caso più blando, molto insoddisfacenti, ma nei casi più gravi vengono inferte proprio delle ferite sia al corpo sociale che all’apparato istituzionale. Quindi effettivamente brutti segnali di non tenuta: anche le regioni che avevano imparato in qualche modo a partecipare a quella razionalità comunitaria, proprio non ce l’hanno fatta.
Di qui una certa disillusione perché in fondo questo complicatissimo piano dello sviluppo locale s ...[continua]
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