Sì, sono stata consigliera comunale a Torino nell’immediato dopoguerra, ma una cattiva consigliera comunale...
Cominciamo a precisare che io mi sono sempre occupata di politica, perché venivo da una famiglia che era molto politicizzata. Mio nonno, che era del 1861, è stato uno dei primi con la tessera socialista e tutta la famiglia si è occupata sempre di politica. Mio nonno era medico condotto nel mantovano e quindi ha assistito a tutto il periodo delle stragi; sì, possiamo dire delle stragi, anche se, forse, è una parola un po’ eccessiva; insomma al periodo delle bastonate, dell’olio di ricino, di tutte le nefandezze delle squadracce di Farinacci, che venivano da Cremona. Questo ha segnato tutta la mia famiglia e quindi anche me. Questo come antefatto. Poi mi ricordo -ero ragazzina- che i miei, mia madre e mia zia, erano nell’ambito di Giustizia e Libertà. Quindi hanno conosciuto Leone Ginzburg, Vittorio Foa, Augusto Monti... Insomma frequentavano quegli ambienti lì. E avevano molta simpatia per la rivoluzione russa. E ricordo ancora, avrò avuto 12-13 anni, la loro angoscia quando si sono accorti che quello che diceva la stampa fascista non poteva essere una "storia”. Allora infatti si tendeva a dire: "Sono storie, quelle che raccontano...”, no? Era la stampa fascista e chi ci credeva? Mi è rimasta impressa una frase di mia madre, che diceva: "No, quando si racconta delle confessioni fatte dai condannati, queste non possono essere storie”. Allora si sono abbonate a Basel Nachrichten, per avere notizie che non venissero dall’Italia.
Io mi appassionavo molto a queste cose, ma mi sono avvicinata al Partito Comunista, non attraverso Marx (non ne parliamo, non ne sapevo niente, ho letto Il Manifesto e le opere storiche, ma non ho mai sfiorato Il Capitale), ma attraverso Trotzkj. I libri che ho avuto in mano da adolescente erano La mia vita di Trotzkj e La storia della rivoluzione russa, per cui sono sempre stata molto critica. Poi a 18 anni mi sono iscritta al Pci. Perché? Perché era stato sciolto il Comintern, e io ho creduto in buona fede che il Partito Comunista italiano, clandestino, fosse autonomo, e che si fosse spezzato quel vincolo. Cosa che era molto ingenua, ma è così... Questo per spiegare che una certa coerenza c’è stata, nei miei passaggi.
La clandestinità? La clandestinità io l’ho fatta da diciottenne, quando viaggiavo fra Torino e Pecetto dov’eravamo sfollati. Un po’ di propaganda, un po’ di organizzazione dei giovani, qualche articolo su un foglietto clandestino, davo lezioni di marxismo a delle ragazzine che ne sapevano meno di me, che ne sapevo già poco... Insomma, queste cose qui, niente di particolare, quindi. Però ho fatto cinque mesi di carcere, perché sono stata individuata.
Fra i tanti errori che ho fatto, avevo appena finito un "Decalogo per gli studenti” perché osservassero le norme clandestine, e facevo venire nel mio alloggio le ragazze a cui davo lezione, perché non avevamo trovato un’altra sede. Probabilmente, siccome qualcuna era stata presa, può darsi che abbia fatto il mio nome. Non lo so, so che vennero a beccarmi a casa e mi trovarono con un po’ di stampa clandestina. Stetti in carcere cinque mesi, tutto l’inverno del ‘44-’45, e uscii il 26 aprile, perché a Torino la Liberazione fu il 26 aprile. Milano fu liberata il 25, noi il giorno dopo. C’erano ancora i carri armati tedeschi in piazza Bernini e sui ponti del Po. E così, dopo l’uscita dal carcere, cominciarono le peregrinazioni. Naturalmente nel Pci m’hanno portato sul palmo di mano perché avevo l’aureola del martirio, ed è per questo che mi elessero consigliera comunale. Ebbi i voti soprattutto degli studenti del Convitto della Rinascita, che non so se voi conoscete.
Beh, quella fu un’esperienza abbastanza interessante... Avevano istituito, sempre il Pci, un convitto-scuola, diviso in varie città a seconda delle particolarità di studio. Qui a Torino c’era la sezione dei futuri meccanici o dei futuri esperti in meccanica; a Milano mi pare che ci fosse il ginnasio-liceo, però non sono sicura. A Bologna non so se ci fosse qualcosa, mi pare che in Emilia ci fosse qualcosa che riguardava l’agricoltura. Insomma, questo convitto aveva almeno tre o quattro sedi, ed ha funzionato molto, molto bene. Avevamo una vecchia villa settecentesca in collina come s ...[continua]
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