Lei fin dalla prima giovinezza ha incontrato la politica, poi, però ha intrapreso la strada della filosofia. Può parlarcene?
Credo di aver attraversato dei mondi diversi. La mia adolescenza, della quale ho una piccola mitologia, in realtà attraversò un mondo che era drammatico, perché c’era la guerra, ma era semplice. Le categorie con cui poteva essere pensato quel mondo erano "bene e male”. Era tutto molto semplice: l’informazione che si poteva avere era un’informazione fattuale giorno per giorno, la guerra va così, succedono queste cose, le speranze, quindi, di finire la guerra aumentano, eccetera eccetera. La vita era incentrata in una maniera del tutto univoca. Io ovviamente, pur essendo un ragazzo, propendevo totalmente per la resistenza: i miei amici, che avevano due tre anni più di me, erano in montagna e per me rappresentavano la verità, il bene; i tedeschi erano invece l’occupazione, la violenza, il male. Quando finì la guerra, questa semplicità del mondo si ripercosse su un’aspettativa altrettanto semplice di un mondo che sarebbe andato nella direzione del bene. Credevamo che, per atroce che fosse la guerra, sarebbe stata l’ultima e si sarebbe instaurato un regnum pacis et laboris. Quindi quei due anni furono di inconsapevole felicità. Non so se fosse così per tutte le generazioni, certamente lo fu per la mia: credevamo che fosse iniziato il mondo nuovo, l’era nuova.
Mi mancava completamente, ma forse mancava alla maggior parte delle persone, persino ai tecnici politici, la visione che la politica ricomincia sempre, che i rapporti tra gli stati, dopo la vittoria, non si sarebbero sviluppati in una collaborazione felice per ricostruire un mondo abitabile in maniera positiva da tutti gli uomini, ma i sistemi di potere si sarebbero di nuovo scontrati. Infatti, quando due anni dopo la fine della guerra iniziò la guerra fredda, la famosa cortina di ferro di cui parlò Churchill, per me fu una delusione potente. Si ricominciava da capo... Fu traumatico ritrovarsi in mezzo a una situazione simile a quella della guerra. Certo, non eguale perché la guerra era fredda e non c’erano pericoli per le nostre vite, ma quella nuova guerra passava pur sempre necessariamente per le nostre vite in modo drammatico, perché ognuno di noi veniva chiamato a scegliere dove stare.
Eravamo entrati in una dialettica storica ineliminabile, rispetto alla quale, pur non essendo possibile stabilire delle differenze, delle qualità diverse, in sostanza occorreva prendere posizione. Voglio dire che questo non fu frutto di una stupidaggine di una generazione o, ancor peggio, di una stupidaggine di uomini politici, e neppure della fedeltà all’Unione Sovietica o all’America di uomini politici in base al loro orientamento, non fu soltanto questo, fu una convinzione quasi filosofica che la guerra non fosse più la guerra che portava alla pace universale, ma che aveva aperto la dialettica storica. Quindi la vita ricominciò da lì e prese forma in quel modo.
Questo furono gli anni tra il 1944 e il 1950, anni caratterizzati da un’aspettiva del proprio essere nel mondo completamente diversa da quella dell’immediato dopoguerra.
La semplice felicità che avevo provato, da ragazzo iscritto ai giovani socialisti, alle prime elezioni municipali, a Milano, il 7 aprile 1946, andando in bicicletta da un seggio all’altro a vedere la fila delle persone che si recavano al voto, la qual cosa mi sembrava la forma sensibile della conquistata dignità e felicità del vivere comune, non c’era più. Ora c’era il dibattito sul Patto Atlantico, sul piano Marshall, e le posizioni opposte. Da una parte c’erano i democristiani che consideravano il Piano Marshall, anche giustamente, come il modo per risollevare l’economia europea e per collegare l’Europa agli Stati Uniti in un progetto etico, politico ed economico. Dall’altra c’erano i comunisti, per i quali ovviamente era invece l’interferenza dell’America sull’Europa, e il tentativo, del resto riuscito, di portare l’Europa nel campo americano come ...[continua]
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