Giampietro Rupolo lavora presso l’istituto clinico psichiatrico dell’Università di Padova.

Come ha cominciato ad occuparsi dei trapianti dal punto di vista psichiatrico?
Tutto è cominciato per una curiosità occasionale: durante un viaggio di studio a Ginevra nel 1988 ho conosciuto una paziente trapiantata che, parlandomi del suo fegato nuovo, lo associava ad una fantasia di gravidanza. In breve lei sentiva che il fegato trapiantato somigliava molto, a livello di autopercezione, a un utero gravido. Questa fantasia mi colpì, perché mi resi conto che il trapianto d’organo non era un’azione medica che interessasse esclusivamente il campo del soma, ma riguardava la psiche molto più profondamente di quanto non avessi mai immaginato.
Io ho un passato di medico organicista, nel senso che ho fatto per molti anni il rianimatore, per cui vengo da una formazione strettamente non psichiatrica. Faccio lo psichiatra soltanto da 15 anni. Sono partito mettendo in piedi un’attività di ambulatorio per i pazienti trapiantati. Il mio intervento è quello di un gruppo di lavoro composto da giovani specializzandi, in cui di solito io sono l’unico medico strutturato che si occupa della cosa.
In che cosa consiste esattamente l’intervento psichiatrico su un paziente trapiantato?
Il mio lavoro si svolge sostanzialmente in due tempi: prima del trapianto viene fatta una valutazione di routine sui pazienti candidati al trapianto, fatta eccezione evidentemente per quelli per cui il trapianto viene fatto in urgenza. L’indagine serve a individuare le eventuali controindicazioni psichiatriche o psichiche al trapianto d’organo. Per esempio, se il paziente è depresso con ideazione suicidiaria, che senso ha salvargli la vita finché rimane in questo stato? Oppure si misura approssimativamente la compliance terapeutica, poiché nel periodo che precede e che segue il trapianto al paziente è richiesto un alto grado di collaborazione con il gruppo curante: bisogna farsi vedere molto frequentemente, sottoporsi a delle biopsie, assumere sistematicamente dei farmaci. Quindi, se emerge una compliance, cioè una capacità di adattamento alla terapia, bassa, con forme di insofferenza, evidentemente questo è un pessimo paziente, anzi è un paziente che a trapiantarlo gli fai un dispetto, perché se non prende i farmaci, se non si fa controllare, si espone al rischio del rigetto, che è un rischio mortale. Sono poi opportune anche delle valutazioni di ordine psico-sociale, perché una delle variabili che si correla statisticamente in maniera significativa con la buona riuscita del trapianto è il sostegno psico-sociale. Se uno, per esempio, non ha una famiglia, ha molte più probabilità di avere una cattiva prognosi a distanza di tempo, rispetto a uno che, invece, ha una famiglia che si occupa di lui. Da alcuni studi effettuati soprattutto negli Stati Uniti la famiglia si è rivelata una variabile importante. La famiglia deve essere consapevole che in questi casi, in un certo senso, si trapianta anche lei.
Questa in sintesi è la fase di valutazione preliminare, che è una parte routinaria, anche se talvolta capita di dover dire anche dei no. Percentualmente i no comunque non superano il 4% dei casi, e di solito si riferiscono a situazioni non trattabili. Una grave forma di malattia psichiatrica come la schizofrenia è una controindicazione pressoché assoluta a un trapianto d’organo, perché in effetti il trapiantato è candidato ad essere un pessimo paziente dal punto di vista del trattamento. Resta poi una fetta abbastanza importante, attorno al 20-25% di pazienti, che presentano delle controindicazioni relative, cioè gravi forme depressive, di cui noi ci facciamo carico, nel senso che cerchiamo di seguirli in modo da portarli al trapianto nelle migliori condizioni. Comunque, in linea generale, la valutazione clinica serve prevalentemente per prefigurare quello che succederà dopo.
E in genere dopo cosa succede?
Dopo il trapianto noi entriamo in relazione con i pazienti sulla base di questo iter prefigurato. Per cui ci sono persone che ci si limiterà a salutare augurandogli buona fortuna, e altre da seguire con attenzione. La prima cosa da chiarire è che il trapianto è una terapia che salva la vita, ma non è una polizza per una esistenza eterna.

La sopravvivenza dei trapianti in Italia è pari sostanzialmente a quella dei paesi tecnologicamente più avanzati, come la Germania e la Francia, gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Dopo cinque anni è attorno a ...[continua]

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