Nel nostro territorio non abbiamo ancora Caffè Alzheimer, né centri diurni o case-famiglia o una rete adeguata di servizi integrati sul territorio. Ci sono alcune Rsa ed ospizi -più elegantemente oggi li chiamano residenze, i cui utenti sarebbero ospiti. Ospiti di chi? E’ difficile trovare la parola giusta e vera. Il progetto regionale Ritorno a casa, istituito da Soru, dà una certa assistenza alle famiglie. Ma ci vorrebbe anche da noi innanzi tutto una formazione più specifica dei medici sul malato di Alzheimer e un volontariato possibilmente qualificato e integrato ai servizi. Analogamente ai vostri intervistati, io ho potuto avere interscambi di esperienze ed anche sostegno dalle psicologhe nei corsi Aima e poi Amas per i familiari. Ma molti vivono ancora la malattia con una riservatezza che rasenta la vergogna.
L’intervistata Gisella ha messo la madre in una residenza, "un luogo dignitoso, dove gli ospiti sono seguiti a livello di assistenza medica, infermieristica” e dove "hanno tutto quello di cui hanno bisogno, perché c’è anche una vita sociale, hanno il cinema, hanno la musica…”. Quindi Gisella, che fa un grosso sacrificio anche economico e si interessa della madre visitandola spesso, giustamente si sente ferita da chi pensa che così lei abbia abbandonato la madre, mentre la sua scelta è stata lacerante e quasi obbligata. E vorrebbe fare una campagna di informazione e sensibilizzazione a favore della scelta delle strutture residenziali, sperando che la figlia un domani possa trovare questa scelta normale.
Io penso invece si debba fare una campagna di informazione e sensibilizzazione per sostenere la residenza o la Rsa solo di riserva, in casi estremi -e anche in queste è bene impegnarsi per migliorarle, come fa Gisella- ma di regola sostenere la famiglia con i servizi aperti sul territorio, come i centri diurni, o l’affido familiare a terzi (amici o almeno amichevoli), o a una casa-famiglia. Poi ogni situazione è diversa e ogni famiglia sceglierà sulla base della situazione concreta.
Se Gisella considera, nell’insieme, positiva l’esperienza della madre in una residenza dignitosa, la mia invece è negativa. Ho posto per due mesi una sorella, che si era rotto il femore e aveva già un po’ di arteriosclerosi, in una struttura specializzata, di "eccellenza”, dove si pagano 2500 euro (con un contributo del Comune in proporzione al reddito), un luogo molto bello. Non vi ricevono il malato se il familiare non ha parlato prima con lo psicologo e mi hanno fatto partecipare anche alla riunione per il piano psicoterapeutico. Tutta scena! Io la visitavo tutti i giorni. Doveva fare 20 minuti di fisioterapia al giorno: "Oggi non ha collaborato, domani forse… Ci vuole tempo”. Per una decina di persone infortunate, alcune in carrozzina, avevano solo una poltrona su cui poter tenere sollevati i piedi, per cui poi tutti avevano i piedi da elefante. C’era poco personale e l’attività di animazione si è fatta più rara. Ho capito che a mia sorella talvolta avevano dato un sedativo. Dopo un mese lei stava intorno a un tavolo con una signora sorda e cieca e un’altra che urlava continuamente se qualcuno non le parlava. E mia sorella non parlava già più. Domando al medico: "Perché mia sorella sta peggiorando?”. "Direi che è il naturale decorso per sua sorella”. L’ho portata via subito, con la febbre, sembrava una moribonda. Ma quando si è vista fuori si è ringalluzzita. Intanto le si era anchilosato il ginocchio e non ha potuto più camminare. Dal che ho dedotto che c’è un grande rischio, specie per chi ha problemi mentali, e grosse difficoltà per il familiare che non è ben informato o "agguerrito”.
Nelle residenze c’è davvero tutto ciò di cui hanno bisogno? La cosa fondamentale, ciò che può consolare un malato di Alzheimer (che soffre di disorientamento spazio-temporale e magari anche di disidentità), è proprio l’affetto dei familiari, che dà valore e sicurezza, così come l’ambiente conosciuto e il mantenere le proprie abitudini danno continuità e aiutano un po ...[continua]
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