Ti conosco come uno che lavora nella formazione per adulti, ma anche come una persona che era molto attiva in tutto quel che riguarda l’immigrazione, soprattutto quella turca. Ma tu dove hai lavorato esattamente?
Ho lavorato in un’istituzione del Comune per l’istruzione delle famiglie, dove condividevo il posto di lavoro (ci dividevamo orario e stipendio) con una collega, Dorothee, e ci occupavamo di formazione per genitori non tedeschi. All’epoca questo era un campo non arato, non c’erano modelli, la formazione per famiglie era rivolta a quelle del ceto medio tedesco. Noi abbiamo sviluppato concetti e pratiche facendo corsi. Io ho lavorato con padri turchi, Dorothee con famiglie italiane. Il tutto si estendeva poi anche a famiglie arabe. Siamo stati anche i primi, nell’assistenza ai giovani, ad assumere collaboratori non-tedeschi; era chiaro, infatti, che la cosa poteva funzionare solo se questi corsi si svolgevano nella lingua madre e se i collaboratori che lavoravano con famiglie turche erano turchi.
Devo aggiungere una cosa: negli anni Ottanta quando queste componenti della popolazione crescevano, ci siamo chiesti come fossero rappresentati politicamente. Abbiamo lanciato l’iniziativa "immigrati in Comune”, che non aveva al centro il mondo del lavoro ma il contesto socio-culturale, e abbiamo avuto successo. Abbiamo messo sotto pressione i verdi perché accogliessero immigrati nelle loro liste in proporzione alla loro presenza percentuale nella popolazione. Questo ha creato dei conflitti, perché così due tedeschi perdevano il loro posto sicuro nella lista e due cittadini (avevano il passaporto tedesco) d’origine non tedesca venivano eletti a far parte del Consiglio comunale. Stuttgart nel 1989 è stata una delle prime città ad avere una rappresentanza politica della popolazione immigrata.
Come si è sviluppata la tua militanza nel movimento dei Stolpersteine?
Una premessa: noi abbiamo la stessa età, probabilmente, io sono del ‘44. La nostra generazione ha sempre presente la storia e il nazionalsocialismo. I miei genitori erano nazisti, mio padre era volontario nella Waffen SS, mia madre veniva da una famiglia di sinistra, socialdemocratica, e i miei nonni erano inorriditi dal fatto che lei si sposasse con un nazista. Dopo il ‘45 tutti e due volevano cancellare quegli anni dalla loro biografia. C’era uno zio, invece, che era di destra e che ci insisteva anche dopo la guerra. I miei genitori -forse mia madre un po’ meno- di quegli anni non parlavano; mio padre andava sempre fuori di sé se si toccava questo tema. Dopo la sua morte, guardando i suoi libri, ho visto che di quel passato se n’era occupato, ma non ne poteva parlare. Penso che per lui, nel suo intimo, tutto questo fosse terribile. Mia madre (che era stata educatrice a Stuttgart e aveva molti bambini ebrei) diceva che si vergognava e che vedeva le sue convinzioni politiche negli anni Trenta come un tradimento di fronte a quei bambini. Questi erano gli anni Cinquanta: insegnanti e genitori che tacevano.
Poi, negli anni Sessanta, questo è diventato un tema importante, ma senza che ci fosse un tentativo di capire che cosa fosse successo concretamente nel territorio. All’epoca dire "nazista” era un’accusa generica. C’era anche quest’analisi sbrigativa: "Il capitalismo porta al fascismo, via il capitalismo”! Così non ci si occupava del fascismo nel concreto, di cosa fosse successo nei luoghi in cui si viveva. Magari ci si occupava di Kiesinger e Filbinger, due persone compromesse con il nazismo che sono diventati Presidenti di due regioni e uno poi, Kiesinger, cancelliere. Ma non si guardava vicino.
Negli anni Settanta io facevo parte di un gruppo e fui buttato fuori perché non tenevo la bocca chiusa. Allora si creò un piccolo gruppo di dissidenti e andammo a lavorare in una fabbrica della Mercedes per guardare da vicino com’era la situazione degli operai. È così che ho imparato il turco. Avevo anche contatti con colleghi greci che venivano da famiglie partigiane, che conoscevano l’altra faccia dei tedeschi e della storia tedesca. E a partire da questo discutevano con noi e tutto diventava molto vicino, a fior di pelle.
Negli anni Ottanta ho iniziato a lavorare all’istruzione per le famiglie immigrate, e tutto questo r ...[continua]
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