Giordano Giovannini è responsabile Cgil dell’Emilia-Romagna per la cooperazione.

All’improvviso sembra che sindacato e Lega delle cooperative siano entrate in rotta di collisione. Al centro dello scontro la figura, di per sé ambigua, del socio lavoratore, che in un mondo del lavoro votato alla flessibilità, si presta ad usi spregiudicati da parte dell’impresa cooperativa. Può spiegarci?
Intanto direi che è più corretto parlare di un problema aperto, presente fin dalla nascita della cooperazione, che non riguarda solo le parti sociali, e cioè il sindacato e la cooperazione, ma proprio l’impianto legislativo e normativo della cooperazione. Questo, infatti, se ha tentato di normare, di regolare l’aspetto impresa e quindi il versante del diritto societario, ha lasciato indefinito quello che è invece la regolazione del rapporto di lavoro. Ovviamente stiamo parlando di quella cooperazione che conferisce lavoro, quella che prevede, appunto, la figura del socio lavoratore, non stiamo parlando di cooperative di consumatori, di abitazione, o altro.
In questo caso siamo di fronte a una figura duplice: un lavoratore che è al contempo titolare dell’impresa, anche se in forma collettiva. Chiarito questo, resta da capire come vada regolato il lavoro del socio lavoratore: dallo statuto e dal regolamento dell’impresa o dal contratto? Dalla legislazione del lavoro o da quella dell’impresa? E soprattutto qual è il suo minimo salariale? Qual è il suo regime previdenziale? E infine da chi è rappresentato?
E’ chiaro che se il socio-lavoratore è imprenditore di se stesso, il sindacato non c’entra. Tutto cambia infatti a seconda che lo si consideri dipendente o autonomo. In questo secondo caso sarebbe addirittura difficile parlare di salario o di remunerazione, bisognerebbe parlare di ripartizione degli utili. Nell’impresa l’utile può esserci o meno, a seconda che l’impresa lo produca e che gli organismi preposti decidano di distribuirlo. Se poi i soci fossero lavoratori autonomi, avrebbero un regime previdenziale con aliquote contributive molto più basse di quelle del lavoro dipendente (al 33% con l’ultima riforma, mentre quello del lavoro autonomo si aggira intorno al 20%).
C’è poi la questione dei cosiddetti ammortizzatori sociali. Il lavoro dipendente ha delle tutele rispetto a riduzioni di lavoro e crisi aziendali: cassa integrazione, indennità di mobilità in caso di crisi, chiusura e licenziamenti, disoccupazione ordinaria. Questi strumenti non sono, purtroppo, a disposizione di tutti i lavoratori dipendenti: ne sono esclusi i dipendenti dell’artigianato, e nel commercio le imprese devono avere almeno 50 dipendenti per poter accedervi. Ma nel lavoro autonomo tutto questo non c’è per niente, perché lì ciò che regola è il rischio: oggi posso guadagnare tantissimo e domani per niente. Poi, come dicevo, c’è anche il problema di come viene organizzato questo lavoro, e di chi lo rappresenta. C’è infatti anche un problema di rappresentanza e di accesso ai diritti sindacali. E’ evidente che, se siamo di fronte a un lavoratore autonomo, anche i diritti sindacali o i diritti di una rappresentanza propria come lavoratore, non sussistono. Sarebbe esaustivo il fatto di essere socio e partecipare alla vita dell’azienda nell’assemblea sociale e negli organismi dell’azienda.
Insomma, si tratta di questioni rilevanti, non di poco conto.
Mi interessa ribadire, però, che al centro di questo confronto, anche acceso, è la mancanza di una definizione della figura del socio lavoratore nella legislazione italiana. La stessa riforma della cooperazione fatta nel ’92 introduce delle modifiche come, ad esempio, la possibilità di avere all’interno della cooperativa anche soci sovventori, cioè soci che non sono lavoratori, ma solo sovventori, ossia che mettono una quota di capitale. Sono state poi ampliate le possibilità di utilizzare e ripartire gli utili, e di intervenire anche sulle forme di gestione. Tutto questo, però, ha regolato il funzionamento della società, dell’impresa cooperativa senza intervenire sugli aspetti che regolano il rapporto di lavoro.
In questo vuoto legislativo si è andati avanti per tentativi, per applicazioni caso per caso, addirittura con sentenze contraddittorie l’una con l’altra.
In alcuni casi, per fare un esempio, lo statuto e il regolamento dell’impresa cooperativa stabilivano che fosse la base sociale a definire la remunerazione per i soci. Ma contemporaneamente le stesse parti sottoscrivevano contra ...[continua]

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