L’ininterrotto flusso di immigrati di questi ultimi anni sta mettendo a dura prova le infrastrutture di alcuni paesi europei, ma anche il concetto stesso di accoglienza.
È importante fare una prima distinzione, che a livello pratico è molto difficile realizzare, ma a livello concettuale è bene mantenere. Mi riferisco alla distinzione tra la migrazione spinta, e attratta, da forze economiche e sociali, quindi in qualche modo fisiologica, e la migrazione dovuta invece a fatti straordinari, costituita cioè da rifugiati. Nel primo caso, gli stati hanno la prerogativa di regolare, di guidare, di governare il flusso di entrata e di rientro. L’altra immigrazione invece è soggetta ai vincoli della Convenzione di Ginevra e dei valori civili che noi pretendiamo e vogliamo rispettare. Ecco, con la prima si può scegliere, con la seconda non si può scegliere: si deve accogliere, certo cercando di gestire tale accoglienza nel migliore dei modi. Ci sono pertanto questi due versanti del fenomeno. Poi naturalmente c’è tutta una zona grigia nella quale è difficilissimo distinguere tra chi ha in qualche modo diritto alla protezione internazionale e chi invece è un migrante economico, sociale e può pertanto essere anche rimandato indietro.
Si è detto che con i rifugiati non si sceglie, però l’Europa si sta muovendo in ordine sparso: l’Austria ha deciso di accogliere non più di ottanta rifugiati al giorno, la Germania, dopo lo slancio iniziale, ha dovuto fare un passo indietro, nell’Europa dell’Est si costruiscono muri...
Teniamo presente che ci troviamo in una contingenza eccezionale. Sono passati settant’anni dalla fine della guerra. C’è stato il conflitto nei Balcani, che è stato un avvertimento di quello che sarebbe potuto succedere, ma comunque l’Europa ha trascorso settant’anni di relativa quiete.
Da qualche tempo invece l’Europa è circondata da contesti molto instabili: basterebbe citare l’Ucraina, ma poi c’è tutta la fascia che va dal Pakistan all’Afghanistan fino all’Iraq e naturalmente alla Siria, per non parlare della Libia, e ancora c’è la fascia immediatamente sub-sahariana, Eritrea, Somalia, Mali, ecc.
Insomma, mai come oggi l’Europa è contornata da una situazione di grandissima instabilità che non c’è da altre parti del mondo; nel continente americano ci sono i narcos, ma è un altro discorso; l’Asia orientale, finché la Cina mantiene fisso il coperchio, perlomeno non dà segni.
Ecco, di fronte a questo scenario l’Europa si trova impreparata. Intanto non ha una politica migratoria. C’è una tendenza a dare direttive più stringenti per quanto riguarda l’asilo, ma ancora oggi ci sono paesi che accettano un’alta proporzione di richiedenti asilo e altri che non ne accettano quasi nessuna. Manca un metro comune e manca forse la volontà.
D’altra parte, l’Europa non ha una politica migratoria neanche per gli accessi normali, per quella migrazione che io definisco fisiologica. Il trattato di Lisbona all’art. 79 mette in capo a ciascuno stato la responsabilità di accogliere chi, quanti e come, a proprio arbitrio. Quindi c’è lo stato che può mantenere le frontiere chiuse e quello che le può spalancare. Manca il pilastro fondamentale di una politica migratoria comune.
Data la situazione, del tutto eccezionale, alla fine si è fatto fronte per quel che si è potuto con risorse locali o regionali.
Durante il conflitto balcanico, la Germania ha ricevuto quasi mezzo milione di rifugiati, gran parte dei quali sono poi rientrati in patria (c’è anche questo dato da tenere in considerazione).
Oggi però tutta la fascia sudorientale dell’Europa si trova sotto la pressione di un’ondata di qualche multiplo più grande di quella balcanica e gli stati non sono pronti. L’Italia è forse più preparata degli altri paesi perché negli ultimi cinque anni ha dovuto governare le ondate di rifugiati tunisini e dalla Libia; ha sperimentato varie soluzioni, molte disastrose, altre meno. Anche lì però sempre con uno spirito emergenziale: non a caso, per oltre un anno la gestione è stata in mano alla protezione civile, con l’idea quindi di un intervento di tipo transitorio.
Il fatto è che qui la pressione rischia di diventare strutturale, per cui bisogna allestire un sistema che ...[continua]
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