Gianni Sofri, storico e saggista, già docente universitario, è considerato uno fra i maggiori studiosi italiani del Mahatma Gandhi. Il libro di cui si parla nell’intervista è Gandhi tra Oriente e Occidente, Sellerio,  2015.

Possiamo partire dalla storia di questo libro...
Questo libro ha un antenato, le cui origini sono legate a un amico carissimo, Pier Cesare Bori, che era uno studioso di storia delle religioni e grande conoscitore di Tolstoj. Ora, sia lui che io sapevamo che Tolstoj e Gandhi erano stati in corrispondenza. Ovviamente per un breve periodo perché Tolstoj era all’epoca molto vecchio, infatti sarebbe morto di lì a poco, mentre Gandhi era sulla quarantina. Non a caso quando abbiamo iniziato a parlare del progetto di pubblicare queste lettere, ci siamo resi conto che la maggior parte delle persone cadeva dalle nuvole, quasi non ci voleva credere. Le persone sono infatti abituate a pensare a Tolstoj come a un grande personaggio dell’Ottocento e a Gandhi come a una grande figura del Novecento. Quando scoprivano che questi due personaggi avevano addirittura corrisposto erano tutti molto stupiti.
Questa corrispondenza consta di sette lettere complessivamente fra l’uno e l’altro; noi l’abbiamo accompagnata con una serie di lettere scritte dai rispettivi collaboratori, che aiutano a capire il contesto. Alcune di queste lettere sono importanti, altre testimoniano semplicemente della difficoltà di inserire la prima marcia e mettere in moto la macchina. Gandhi all’epoca è in Sudafrica dove conduce delle lotte in difesa degli indiani; nel 1909 scrive a Tolstoj e gli dice: ho letto un suo articolo, mi ha dato molto da pensare, noi ci ispiriamo molto alle cose che lei scrive, e quindi mi è venuta voglia di parlargliene. Tolstoj riceve questa lettera che probabilmente giace a lungo sul suo tavolo. Diciamo che la messa in moto di questa macchina è molto lenta. A un certo punto però Tolstoj riceve anche una biografia di Gandhi, la prima, scritta da un sacerdote anglicano che stava in Sudafrica; la legge e comincia a capire che queste lotte di indiani sudafricani sono importanti. Scrive pertanto a Gandhi e i due cominciano a dialogare, entrano anche nel merito di alcuni problemi.
Ecco, per scrivere questo primo libro, che risale agli anni Ottanta, di comune accordo, Bori e io ci dividemmo il lavoro. Io scrissi un saggio lungo su Gandhi, e lui su Tolstoj, e poi curammo questa corrispondenza. Per molti anni ho pensato che mi sarebbe piaciuto ritirare fuori questa corrispondenza con i discorsi che ci avevamo costruito attorno; anche Bori pensava la stessa cosa, tant’è che in una sua raccolta di saggi sulla cultura russa ripubblicò il suo saggio su Tolstoj. All’epoca gli dissi che prima o poi anch’io avrei fatto la stessa cosa. Questi sono i precedenti.
Aggiungo che il mio capitolo su Gandhi non è propriamente una biografia, e un po’ lo è. A me interessava portare il lettore al punto dell’incontro di Gandhi con Tolstoj (cronologicamente la mia biografia si ferma lì) e poi mi interessava mettere in evidenza alcuni problemi.
Veniamo a Gandhi. La prima cosa che metti in evidenza è che Gandhi, paradossalmente, sembra scoprire la sua identità di indiano a Londra...
In questa sorta di biografia che arriva soltanto fino all’inizio della Prima guerra mondiale, cioè al momento in cui Gandhi, finita la sua esperienza sudafricana, torna a vivere in India, il primo problema che pongo è per l’appunto questo: ma Gandhi è un indiano o un europeo? In apparenza la risposta è molto semplice, è indiano, più indiano di così! Ci sono dei bellissimi libri fotografici su Gandhi, che contengono decine e decine di fotografie delle varie tappe della sua vita. È possibile ricostruire l’evoluzione del pensiero e dell’attività di Gandhi attraverso i suoi abbigliamenti. Fino a quello finale, che consiste sostanzialmente di una specie di tunica, di lenzuolo, corredato di sandali.
Gli oggetti che lascia alla sua morte sono appunto questo lenzuolo, un paio di sandali, un arcolaio, perché lui filava e tesseva il cotone, un orologio, credo, e poco più. Alla fine di una lunga vita lui possedeva queste cose. Il suo abbigliamento era una scelta, la scelta di essere vestito e quindi riconosciuto come tutti gli altri indiani, di non portare alcun segno di distinzione o di ricchezza. C’era anche un altro elemento all’origine di questa scelta, ...[continua]

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