Da una recente ricerca sul mercato del lavoro milanese, emerge innanzitutto un quadro di grande operosità della popolazione femminile con tassi di occupazione superiori alla media europea.
Si tratta di una ricerca importante perché è la prima volta che è stato possibile analizzare le rilevazioni nazionali sulle forze di lavoro, che è il corpo statistico più solido, relativamente al Comune di Milano. Solo recentemente infatti l’Istat ha messo a disposizione i dati su alcuni grandi comuni italiani.
Questa è l’origine e l’opportunità di questa ricerca, dopodiché la cosiddetta ottica di genere viene da sé: se vuoi capire come funziona il mercato del lavoro di una grande città è imprescindibile studiare la componente femminile, ma anche e sempre più quella straniera. All’interno di queste componenti, l’altra grande differenza è quella generazionale. Se vuoi raccontare la complessità di un mercato urbano e metropolitano come quello di Milano, devi studiare come queste diverse popolazioni si intrecciano, come entrano in relazione. Sesso, generazione e provenienza sono tre variabili decisive per capirci qualcosa.
Personalmente uno dei dati che più mi ha colpito e che impone, mi sembra, un cambio di passo nel pensiero del lavoro, è che circa la metà dei lavoratori non è un dipendente a tempo indeterminato full time, né tra gli uomini e tanto meno tra le donne.
Il non standard rappresenta quasi la metà del lavoro milanese; è più della metà tra le donne; è più della metà tra gli stranieri.
Inoltre "il lavoratore” milanese è ormai per metà una donna (48% sul totale occupati residenti), e sono più donne che uomini sia i giovani occupati italiani tra i 20 e i 29 anni, sia i lavoratori stranieri dai trent’anni in su.
Questa consapevolezza cambia profondamente la visione del lavoro e sposta anche la percezione dell’importanza delle politiche sociali. Tutto il tema della rappresentanza diventa molto importante, non solo in termini rivendicativi, ma proprio in termini di come si vive e di che senso ha il lavoro in un contesto del genere.
Parliamo allora delle lavoratrici.
I tassi di partecipazione femminile sono superiori alla media dei paesi europei più sviluppati; parliamo del 68% di occupate, con punte, per le donne adulte tra i 30 e i 44 anni, che superano l’80% tra le italiane, e il 75%% tra le straniere. Sono dati incomparabili con quelli medi italiani, dove l’analogo tasso di occupazione è fermo al 50,3%.
C’è poi una percentuale di disoccupati concentrata nell’età giovanile, ma che complessivamente è intorno al 5%, più bassa della media europea; anche i tassi di inattività sono molto contenuti.
Questa laboriosità proverbiale è dunque pienamente confermata.
Un secondo aspetto rilevante è che questa popolazione femminile, soprattutto nella sua parte giovanile, ha un livello di istruzione alto, e con uno scarto crescente rispetto agli uomini man mano che si scende nella generazione. È vero che i percorsi scolastici femminili sono un po’ diversi da quelli maschili, ma sempre meno. Quando si parla di "capitale umano” a Milano si pensa all’informatico, all’ingegnere, ecco, non è più così.
Entrando più nel dettaglio, nella fascia 15-19 anni le ragazze sono tutte a scuola. Dai 20 ai 24 anni vivono per la quasi totalità in famiglia e sono anche loro per la grande maggioranza impegnate in qualche forma di prosecuzione degli studi. Naturalmente il grosso comincia l’università, però un’altra caratteristica interessante di Milano è che stanno proliferando (non so con quale controllo e qualità) offerte formative di ogni tipo sia pubbliche che private. Io ho contato recentemente 234 enti di formazione pubblici e privati accreditati nel solo Comune di Milano. Ecco, tutto il tema dell’apprendimento e della formazione è molto importante in questa città che cambia. Non so quanto l’Amministrazione abbia titolo e strumenti per censire più in prof ...[continua]
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