Alexander Stille, figlio di Ugo Stille (nato Mikhail Kamenetzki), storico corrispondente e poi direttore del Corriere della Sera, attualmente vive a New York, ed è professore di giornalismo presso la Columbia University. Ha raccontato la storia della sua famiglia nel volume: La forza delle cose, Garzanti.

La nostra famiglia arrivò negli Stati Uniti alla fine del settembre 1941. I genitori di mio padre erano degli ebrei russi. Mia nonna veniva da una famiglia piuttosto benestante di mercanti. Agli ebrei non era permesso vivere a Mosca, ma loro avevano un permesso speciale grazie alla loro attività commerciale. La famiglia del mio bisnonno dirigeva l’intero comparto industriale della melassa della Russia zarista. Tant’è che lui era noto come "il re della melassa”. Con la rivoluzione russa perdettero tutto: vennero sequestrate le fabbriche, la casa, ecc. In mezzo a quella bufera i miei nonni si incontrarono e si sposarono. Mio nonno era nato in uno shtetl in Bielorussia; con il trattato di Brest-Litovsk, ratificato alla fine della Prima guerra mondiale, quel luogo era diventato Polonia. Il passaporto polacco di mio nonno rappresentò la possibilità di uscire dall’Unione sovietica. Così i miei nonni, avendo capito che il vento non era loro favorevole, sia in quanto mercanti sia in quanto ebrei, decisero di lasciare la Russia. Nel frattempo, nel 1919, era nato mio padre, Mikhail Kamenetzki; sua sorella, mia zia Lally, nacque invece a Riga nel 1921, nel corso del lungo viaggio che li avrebbe portati a Napoli e infine a Roma. In Italia mio nonno fece il dentista. Aveva una clientela abbastanza illustre: oltre ai bolscevichi e ai russi bianchi di Roma, c’era un giro piuttosto altolocato che si rivelò molto utile quando le cose si fecero complicate per gli ebrei in Italia. Ricordo in particolare che mio padre mi citava un senatore del Regno che fu anche ministro dell’educazione, Pietro Fedele; questa e altre conoscenze aiutarono la famiglia a ottenere la documentazione necessaria per lasciare poi l’Italia.  Con l’avvento delle leggi razziali i miei nonni si trovarono infatti in una posizione impossibile, kafkiana: da una parte avevano perso la cittadinanza italiana (che avevano ottenuto con grande fatica); dall’altra non avevano la possibilità di andarsene perché il governo negava il passaporto a mio padre. Non si voleva che dei giovani, soprattutto maschi in età militare, potessero uscire dall’Italia per entrare in eserciti nemici. Così non potevano lavorare né andare altrove. Ci vollero loro tre anni per riuscire a partire.
Le leggi razziali furono annunciate nel luglio del 1938 ed entrarono in vigore nell’autunno dello stesso anno. Loro uscirono dall’Italia solo nel settembre del ’41, quando la guerra era già in corso e molti porti d’Europa erano stati bloccati. Alla fine infatti dovettero passare per la Spagna e arrivare a Lisbona, l’unico porto che ancora funzionava. Ci misero tanto perché non era difficile solo lasciare l’Italia, ma anche entrare negli Stati Uniti, dove già era in vigore una politica contro l’immigrazione, anche per via della depressione. Gli Stati Uniti lasciavano entrare solo chi avesse uno "sponsor” pronto a garantire di poter mantenere i nuovi arrivati a tempo indefinito, quindi era richiesto un impegno economico non indifferente. Per verificare che fossero presenti queste condizioni il governo americano diventava molto invadente. I miei nonni scrissero a tante persone, conoscenti, ma anche sconosciuti per chiedere aiuto. Con grande fortuna trovarono una persona disponibile. Mio nonno a un certo punto aveva sentito parlare di un ragazzo, Hoffman, che veniva dal suo stesso paese in Bielorussia e che aveva avuto fortuna negli Stati Uniti, a New York. Questa persona, da giovane, aveva ottenuto una borsa di studio per frequentare la yeshiva di cui il padre di mio nonno era stato benefattore. Hoffman ricordava ancora il nome Kamenetzki così, con grande generosità e senza esitazioni, appena ricevette la lettera di mio nonno, rispose con un telegramma in cui accettava di fare loro da sponsor. All’epoca aveva una fabbrica a Brooklyn dove mi sembra facessero divise da lavoro. Era un’attività ben avviata. Nonostante Hoffman fosse benestante e anche ben disposto, il governo americano, che cercava di scoraggiare il più possibile l’immigrazione, lo portò all’esasperazione con la richiesta di documenti e permessi che, tra l’altro, nel corso dei tre anni di attesa, dovettero essere rinn ...[continua]

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