Aldo Capitini, nato a Perugia (1899-1968), ebbe la sua formazione universitaria presso la Scuola Normale di Pisa, dalla quale venne cacciato per contrasti politici con il filosofo Giovanni Gentile. Si racconta che, uscito dall’aula nella quale gli era stata comunicata la grave sanzione, il teorico del fascismo e di molti suoi slogan, abbia detto a un collega: “Abbiamo fatto bene a mandarlo via, è proprio una persona per bene”. Fu in galera per brevi periodi, nel 1943 fu liberato per l’armistizio.
È stato un uomo di grande levatura intellettuale, mal visto, sottovalutato perché interessato a una battaglia civile lontana da ovvietà e ideologismi politici di scarsa efficacia, per rivolgersi a tensioni in cui la realtà, tutta la realtà potesse essere modificata e migliorata attraverso la partecipazione di ogni singolo soggetto alla vita di tutti, con l’impegno di creare e realizzare valori che distruggano il male ed esaltino il bene. Tutto con afflato insieme utopistico e religioso, nel quale tutti gli uomini, gli animali, le piante siano compresenti per modificare la realtà, protagonisti di un divenire continuamente operante. Il suo messaggio religioso (da legare insieme) non ha tracce di religioni storiche, non il cristianesimo né altre religioni soprattutto nella loro potenza istituzionale, che chiede asservimenti dogmatici ai fedeli. Capitini opera per un futuro nel quale una solidarietà del bene operare, nella cooperazione di uno-tutti, crei un’apertura di libertà per ogni cittadino. Il suo scopo è quello di unire la sintesi politica, sociale religiosa a un messaggio di pace.
Ha tracciato solchi importanti tra il socialismo liberale dei fratelli Rosselli e il liberalsocialismo di Guido Calogero, al quale era legato dall’esigenza di comunicare un cristianesimo primitivo e l’etica gandhiana in un paese di devoti paludati e di scettici poco osservanti come in Italia. Una delle prime iniziative prese da Capitini per contrastare il potere politico della chiesa, asservita nei decenni precedenti al fascismo, con il quale aveva firmato l’11 febbraio del 1929 il Concordato che tanto peso avrà nella lotta politica anche nella temperie della democrazia, fu quella di inviare una lettera al vescovo monsignor Pietro Fiordelli di Prato con la quale annunciava di volere abiurare al cattolicesimo per molti motivi. “Eminenza, nei registri dei battezzati di Perugia risulta che dopo la mia nascita fui battezzato, ma da molti decenni non frequento la chiesa cattolica e ho più volte affermato che la religione cattolica non è la religione che intendo professare. Sono convinto che alcuni fatti che la dogmatica cattolica obbliga a credere come realmente avviene, non sono che leggendari e di ciò mi ha convinto la critica neo testamentaria: la nascita miracolosa di Gesù, la sua resurrezione e Ascensione, l’Assunzione di Maria. Sono convinto che sia immorale e irreligiosa l’eternità delle pene infernali, che l’autorità assoluta del Pontefice è stata ed è fonte di opinioni e decisioni inaccettabili come la distinzione tra ricchi e poveri, quale voluta da Dio. Il potere della classe sacerdotale, l’intrusione autoritaria nel campo della ricerca scientifica e storica e nella libertà di informazione e di espressione, la sostenibilità della guerra giusta, lo spirito di crociata contro il socialismo e l’alleanza con capitalisti reazionari e monarchici, la persecuzione degli ex preti. A me, mai iscritto al fascismo, per fedeltà alla nonviolenza e alla liberà, di tutti apparve che la conciliazione tra il Vaticano e il tiranno, accompagnata da un opulento scambio per anni di favori e di elogi, potesse chiarire per sempre che non ci si poteva aspettare dalla Chiesa di Roma né lo sviluppo dello spirito cristiano, né la difesa della libertà della giustizia, della pace”. Seguiva la richiesta di un atto formale che attestasse che il battezzato Capitini fosse esente dalla giurisdizione di “gerarchi” a cui “non riconosco su di me un potere superiore a quello di ogni altro essere .Non ho odio per nessuno e non l’ho per quei gerarchi e voglio essere libero di considerare le osservazioni,le critiche e le ingiurie che essi mi rivolgono nello stesso modo con cui posso considerare quelle rivoltemi da altri uomini che possono sbagliare e che possono avere ragione”. Lettera attualissima a cui corrispondono, anche oggi, non tanto pratiche per sbattezzarsi, ma un catastrofico crollo delle vocazioni e una endemica mancanza di partecipazione alle messe almeno domenicali. Con sacerdoti comandati, come accade a Genova, di governare anche cinque parrocchie. Il vescovo, già protagonista di accese polemiche per avere diffamato una coppia di coniugi, non poteva ritenersi esente dal trattare con disattenzione l’esodo di una pecorella del suo gregge. La parabola del Vangelo insegna altro. Ci fu un silenzio o di impotenza o di orgogliosa sufficienza. I fedeli trassero la conclusione che comunque si trattava del silenzio di una sconfitta. Monsignor Fiordelli aveva chiamato pubblicamente i coniugi Bellandi di Prato “concubini” per avere contratto solo il matrimonio civile. Ma “concubini” è parola che indica due persone che dormono insieme senza nulla di legittimo (la parola deriva dal latino “cubo”, essere appoggiato sopra un giaciglio, riposare). Ma nei secoli in Tacito, Svetonio, Cicerone veniva a significare “druda, cortigiana”. Ne nacque uno scandalo veemente verso persone libere di scegliere il loro stato e verso lo Stato che ha disciplinato il matrimonio civile. Il vescovo, prima condannato poi assolto, e i Ballandi costretti a pagare le spese processuali.
Dopo la fine della guerra Capitini organizzò i Cos (centri di ordinamento sociale) e Cor (centri di orientamento religioso) e fu infaticabile promotore di attività intese alla diffusione della non violenza e della pace, come la marcia Perugia-Assisi.
Da San Francesco in poi, osservava Capitini, le minoranze migliori hanno avuto in Italia il costante destino di non diventare maggioranza. Perché questo passaggio avvenisse era chiaro che dovevano attraversare una fase istituzionale di organizzazione del potere, alla quale egli si è sempre rifiutato di partecipare, forse per una recondita umiltà di non diventare protagonista prevaricatore. Appare quindi naturale che gli sia stato negato, nel quadro delle lotte politiche, un ruolo di autorevolezza, non fu per esempio candidato alle elezioni per la Costituente, ma gli fu riservato, inevitabilmente il ruolo di personaggio minore. Capitini, che pure aveva frequentato Giame Pintor, non opponeva che la forza silenziosa dell’esempio: il suo rifiuto della tessera del partito fascista e, come si è detto, la perdita del posto alla Normale di Pisa, lo trovarono nel dopoguerra uguale nel coraggio, uguale nel fine del rovesciamento della dittatura, ma sempre di necessità e di scelta personale rinchiuso nella sfera etica della testimonianza.
Eppure Aldo Capitini ha un posto a sé nella storia della nostra cultura, a lui siamo tutti debitori.
Nel suo metodo, coscienza religiosa e passione politica si compenetrano e si confrontano. Il suo difendere la “religione aperta” assolutamente universale senza barriere nello spazio e nel tempo, intende affermare la coralità della storia e la sua continuità spirituale, che si esprime nella solidarietà profonda, per costruire un invincibile amore affratellante tutti coloro che sono nati all’inizio del mondo (da Capitini chiamata “la compresenza dei vivi e dei morti”). Non fa proposte riformatrici, ma formula un’intuizione religiosa condita con vigore poetico: è il prevalere della carità sollevata a livello cosmico. In un non forzato connubio con le costruzioni intellettuali di Teilhard de Chardin.
Tutte le sue contestazioni alle “istituzioni” storiche delle comunità religiose, soprattutto a quella cattolica, colpiscono la parte mondana e spiritualmente inerte, cioè quello che Capitini chiama “il sacro di chiusura”. Spiega che occorre richiamarsi alla rivoluzione che l’assoluto porta nella storia. Anche quando, come nella valutazione dei risultati del Concilio si mostra severo ed esigente sempre alla ricerca del suo finalistico ideale di purezza, sempre stimolante e illuminante. Ma Capitini sul terreno politico non è stato con altrettanta limpidezza profeta disarmato, non perché abbia scelto programmi come quello del liberalsocialismo o l’idea di sostituire uno “Stato intellettuale–popolare al posto dello Stato cattolico borghese”.
Perché la sua indicazione utopistica si è fermata alle soglie del sistema politico. I Cos a cui diede vita con il richiamo ai valori della conoscenza, della persuasione, con il modello nonviolento gandhiano, non trovarono consenso generalizzato, tutto soffocato dalla forte organizzazione dei partiti. Il suo proposito di una contestazione radicale alla “autonomia” della politica e ai suoi fondamenti machiavellici, parevano approdare a un modello di assoluta linea libertaria e anarchica. Ma forse anche di educazione consapevole di una libertà di coscienza non asservita ad alcun schema ideologico.
Capitini propose un modello sperimentale che rimane tra i più significativi fermenti nella ricerca di nuove forme di democrazia diretta, che prolungò nel tempo le speranze nate e fiorite nella Resistenza. La loro durata fu breve. E fu accusato di essere stato più indulgete con la dirigenza dei partiti di quanto non lo fosse stato con le gerarchie ecclesiastiche. La sua indipendenza era sorella della sua integrità. Gli attacchi soprattutto dei comunisti che gli imbastirono un processo strumentale non impedirono un degrado della nostra vita politica. Toccherà a Norberto Bobbio in un prezioso volume “Maestri e compagni”, ed. Passigli, scrivere due saggi “La filosofia di Aldo Capitini” e “Religione e politica in Aldo Capitini” in difesa di un amico con il quale aveva scambiato un nutrito epistolario.
Nel primo, Bobbio cerca di mettere ordine e rendere comprensibile l’itinerario del pensiero del massimo teorico italiano della nonviolenza. “Capitini non fu e non volle essere un filosofo in senso scolastico o, peggio, professionale della parola -scrive Bobbio- ma si inserisce nel filone delle correnti filosofiche che terranno il campo dopo la Liberazione: Geymonat e Colorni (filosofia scientifica), Abbagnano e Paci (esistenzialismo)”. La rottura capitiniana avvenne dalla parte dell’al di là delle scienze: cioè la liberazione dalla materia, sulle orme di Nietzsche e sulla contiguità con il giovane filosofo Carlo Michelstaedtr, suicida a vent’anni, che marchiò Capitini, che ricordava: “Carlo si uccise dopo avere sentito come forse nessun altro la romantica riduzione di tutto a se stesso, si uccise per possedersi, per consistere e per sottrarsi a ogni dominio e realizzarsi perfettamente. Egli scontò, con la sua vita serissima, tutta una civiltà”. Ciò per affermare con “la persuasione” di se stesso, con lucida tragica indicazione che -Capitini spiega- “Ognuno deve aprirsi nuovamente da sé la via, poiché ognuno è solo e non può sperare aiuto che da sé. La via della persuasione (auto persuasione) non ha che questa indicazione: non adattarsi alla sufficienza di ciò che ti è dato”.
L’uomo ha bisogno di un’esistenza autentica, mentre la “retorica” è la traccia di una vita inautentica che spiega tutto ma non trasforma nulla. Da Kant a Leopardi, Capitini si definisce “un libero religioso, implicitamente kantiano con prevalente attenzione alla finitezza dell’uomo, al suo dolore, all’incapacità di operare in mezzo a una civiltà attivistica. Kantiano, leopardiano umanitario e socialisteggiante, cioè dalla parte dei dannati della terra, dei sofferenti, degli ultimi, dei torturati, degli scomparsi, degli stanchi, dei dimezzati”.
Nel secondo saggio, Bobbio ricorda: “Il suo posto fu sempre dalla parte dei dannati della terra. Non solo gli sfruttati, i poveri, ma tutti i derelitti, malati, pazzi, storpi, i disperati dei quadri di Bruegel. Era penetrato così in fondo in questa storia da essere convinto che all’uomo di ragione e di fede non fossero restate che due vie: o rassegnarsi nel dolore senza speranza o il tentare una nuova strada”.
Aveva osato Capitini scrivere parole di fuoco contro Pio XII e contro molti velleitarismi inconclusi del concilio Vaticano di cui si possono ricordare le violente polemiche del genovese cardinale Giuseppe Siri, che su sponda reazionaria ebbe a scrivere che: “Ci sarebbero voluti cinquant’anni per sanare i guasti di questo moderno Concilio”.
Bobbio, uomo di generosità ineguagliata, tra tanti falsi intellettuali, concludeva la sua riflessione con parole commoventi: “Non è troppo presto per rendere omaggio a un nobile ardimento che ha arricchito la nostra vita e di cui si dovrà riparlare. In una delle ultime lettere gli scrissi che la differenza tra lui e me stava nell’essere lui un persuaso, io un perplesso. I perplessi restano perplessi. Ma è pur vero che la storia di orrori e di follie continua a svolgersi sotto i loro occhi di spettatori impotenti”. Servirebbe distribuire nelle fabbriche di armi, nelle scuole, nelle chiese di qualunque religione qualche volume di Aldo Capitini? Lui, che timidamente osservava: “Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non l’accetto. Non è detto che sia immutabile la realtà dove il pesce grande mangia il pesce piccolo”.
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