Giuseppe Fattori, primario di anestesia, fa parte del gruppo di lavoro della regione Emilia Romagna sulle cure palliative e l’assistenza domiciliare.

Cosa si intende esattamente con "cure palliative"?
In Italia l’argomento "cure palliative" non è ancora diffuso, in campo medico non esiste ancora una branca specialistica, mentre in Inghilterra e in Canada ci sono già delle scuole apposite. Le cure palliative non sono legate alla patologia: possono essere rivolte ai pazienti oncologici, ai malati di Aids, ai distrofici. La tecnologia sta facendo grossi passi avanti, la farmacologia anche, ma è l’aspetto organizzativo che continua a rimanere indietro. In Italia c’è un po’ di organizzazione indirizzata sul settore del dolore dell’apparato locomotore, ma non c’è ancora sul paziente oncologico perché è un campo molto più difficile.
Un punto chiave di questa assistenza sono gli "hospice", cioè strutture sanitarie a costi più bassi dell’ospedale, fatte a dimensione della persona, dove i familiari hanno libero accesso, dove non si è vestiti da ammalati e non si subiscono tutte le angherie dell’ospedale. Con l’hospice si media tra domicilio, attività ambulatoriale e posto di ricovero. La tecnologia dell’ospedale lì non serve più, sono zone a bassa tecnologia e ad alto contenuto assistenziale, luoghi dove il paziente porta tutto quello che vuole da casa -i suoi fiori, il suo gatto- e può avere un angolo cottura per prepararsi le cose che gli piacciono. Nella lingua italiana "palliativo" viene inteso in senso negativo, significa che non c’è più niente da fare, mentre, all’opposto, è quando non si può fare più niente per guarire una malattia che si comincia a lavorare per curare, e questo coinvolge moltissime patologie. Dall’arteriosclerosi non si guarisce, neanche dal diabete o dall’insufficienza respiratoria, però si curano, si curano per parecchi anni e l’ospedale non è il luogo più adatto per queste persone, perché la finalità dell’ospedale è la guarigione, non la cura. Se l’obiettivo è la guarigione, qualsiasi prezzo è pagabile: uno si rompe la gamba, c’è un intervento, ci sono delle sofferenze da affrontare, però si sa che poi ci sarà la guarigione, ma quando non c’è più questo obiettivo finale cambia tutto, qualsiasi terapia va mediata col paziente.
Quindi non è un’assistenza facile, non ci sono dosaggi giusti, niente è scontato: bisogna chiedere al paziente, perché magari anche un disturbo piccolissimo per lui è insopportabile. Bisogna riuscire a dare sollievo dal dolore oppure dare un supporto nutrizionale, e fare queste cose fuori dalla struttura tradizionale dell’ospedale abbisogna di un’organizzazione, bisogna riuscire a portare fuori gli specialisti.
In questo momento il 30% dei pazienti muore a casa e il 70% in ospedale: l’obiettivo è invertire questa percentuale. Nella malattia, inoltre, c’è spesso una fase intermedia in cui, per mille motivi, la famiglia ha bisogno di respirare un attimo, oppure c’è bisogno di un’assistenza un po’ più intensa, e allora si utilizza l’hospice.
Un punto importante, però, è non concentrare troppo nel territorio i posti-letto di hospice, al fine di evitare che questi vengano individuati come il posto dove si va a morire. Bisogna distribuirli nel territorio e questo potrebbe anche avere il senso di una vicinanza alla famiglia. Non è necessario che siano tantissimi, in primo luogo perché, purtroppo, il turn-over è enorme e poi perché non sono luoghi per i lungo degenti: servono a dare un sostegno alla famiglia in un momento particolare.
Ricerche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sui fondi e sulla destinazione delle risorse, hanno rivelato che in questo momento le risorse sono investite soprattutto nella ricerca e nella prevenzione e pochissimo nelle cure palliative, ma ora, tenendo conto dei risultati che si hanno, dei numeri, della quantità di pazienti che stanno morendo, che si trovano in situazioni disperate, è la stessa Oms che sta proponendo di spostare più fondi verso il sollievo dal dolore, verso le cure palliative, e meno verso la terapia causale, verso la ricerca. Soprattutto la tendenza è quella di lasciare la ricerca ai paesi avanzati, che hanno già strumenti per farla, mentre in altri paesi, soprattutto in quelli in via di sviluppo, si deve potenziare l’assistenza.
Ci sono già cure palliative sperimentate?
Ci sono, in ogni regione nascono spontaneamente. Quella del dolore è un’emergenza reale, non un bisogno indotto dalla struttura, dai ...[continua]

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