Hai un dottorato in storia contemporanea e la tua formazione è quella di storico. Quando ti sei avvicinato al tema della meritocrazia?
Avevo in testa questo argomento da molto tempo. Ne coglievo le ambiguità e mi interrogavo sull’uso politico trasversale di questo concetto. La collaborazione con due riviste dirette da Goffredo Fofi, “Lo Straniero” e “Gli asini”, mi ha dato la possibilità di iniziare a scandagliare la storia e le implicazioni ideologiche della “meritocrazia”, e soprattutto mi ha spinto a cercare le connessioni tra indagini svolte su terreni diversi (il linguaggio, il narcisismo, la cultura terapeutica, il vittimismo, per citarne alcuni) ma che in realtà sono limitrofi. Ho quindi voluto dare una veste più organica alla riflessione, che ho portato avanti per alcuni anni sulle riviste mostrando le connessioni tra differenti campi del sapere e differenti campi dell’azione sociale.
Dunque un semplice interesse a latere del tuo mestiere di storico?
Chiaramente le cose non vengono mai a caso. La formazione storica mi ha portato a dedicare un ampio spazio alla nascita e alle trasformazioni del concetto di “merito”. Sarebbe impossibile capirne le implicazioni senza averne chiare le origini e gli sviluppi. L’interesse storico si è però intrecciato alla necessità di leggere il tempo presente con strumenti analitici in grado di contrapporsi alla banalizzazione che caratterizza l’uso superficiale e disinvolto di parole chiave. “Merito” è una di queste.
Allora partiamo dalla storia, dalle radici neoliberiste del concetto di merito. Com’è stato possibile che il termine “meritocrazia”, nato in un contesto critico-satirico, sia stato adottato quasi da tutti in senso positivo?
La parola “meritocracy” nasce negli anni Cinquanta negli ambienti della sociologia inglese. Alan Fox la utilizzò, probabilmente per primo, nel 1956; Michael Young la rese celebre adottandola come titolo del suo romanzo-saggio satirico e distopico pubblicato nel 1958, The Rise of the Meritocracy, che ebbe un grande successo. Nelle menti dei suoi inventori e primi utilizzatori, il neologismo aveva un significato fortemente negativo, influenzato da un’osservazione attenta della società inglese di quegli anni, nella quale intravedevano in forma embrionale una serie di elementi che a loro avviso (e avevano visto giusto) avrebbero determinato profonde distorsioni nella concezione egualitaria della società.
Ad esempio, in quel periodo il Partito laburista, di cui Young faceva parte, aveva tra i suoi obiettivi l’abolizione dell’Eleven-plus, un esame cui venivano sottoposti ragazzi di undici anni che dava luogo a una precoce canalizzazione e differenziazione scolastica. Sei anni prima della pubblicazione del libro di Young uscì in America il romanzo d’esordio di Kurt Vonnegut, Player Piano: un altro libro distopico che mostra come l’abbattimento dei privilegi ereditari nel nome del “merito” porti alla costruzione di un sistema sociale basato su una gerarchia di potere ancora più rigida e spietata. Ancora una volta la letteratura distopica si è rivelata in grado di anticipare le tendenze delle trasformazioni sociali e coglierne le implicazioni profonde.
In entrambi i libri la società meritocratica finisce per implodere sotto il peso delle sue stesse contraddizioni. Ammesso e non concesso che la nostra sia una società meritocratica, oggi non mi sembra di vedere questo pericolo all’orizzonte.
Con una battuta si potrebbe dire che Young colloca la rivolta che abbatte il sistema meritocratico nel 2033, quindi non è detto... La letteratura distopica non ha il compito di prevedere con esattezza gli avvenimenti futuri, ma di indicare le strade che la società sta prendendo. Da questo punto di vista, ha sempre giocato un ruolo anticipatore. Purtroppo il libro di Young, che dopo il suo successo iniziale è stato probabilmente più citato che letto, è stato frainteso, e la sua parola-chiave, meritocrazia, ha subìto una trasformazione e ha acquisito nel tempo un significato positivo. È come se Young, in modo involontario, avesse fornito un vocabolo comodo e ...[continua]
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